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Con Kobe Bryant è morto il basket

Per un'intera generazione Kobe Bryant era la pallacanestro: esplosivo, elegante, fantasioso. I bambini sognavano la palla a spicchi e quella canotta gialla

Con Kobe Bryant è morto il basket

Palleggio, cambio mano, raccolgo un immaginario pallone e schiaccio sbattendo la mano sullo stipite di una porta di casa. "Che idiota", dice mia sorella. Io rido, sorrido e ricomincio. Chissenefrega. "L'ho fatto proprio come Kobe".

Per capire cosa significa per molti la morte di "Black Mamba" dovreste guardare "Dear Basketball", il cortometraggio sulla lettera d'amore scritta dal campione Nba il giorno del suo addio alla pallacanestro. Kobe è piccolo, osserva i suoi miti solcare il parquet, sogna di diventare un giorno come loro. "Non importa cosa farò dopo. Sarò sempre quel bambino con i calzettoni arrotolati e il canestro dei rifiuti nell'angolo", scriveva. Anche Kobe imitava le stelle, si allenava con una palla fatta coi calzini di papà. E alla fine ce l'ha fatta. Ha passato 20 anni a Los Angeles, sponda Lakers. Ha incantato il mondo forse più di quegli stessi campioni che osservava giocare da bambino. Ed è diventato il simbolo di un'intera generazione. Non si tratta di banale paggeria per un uomo che non c’è più: con quell'elicottero si è schiantato il mito di milioni di piccoli aspiranti giocatori di pallacanestro. Come lui osservava Magic Johnson con occhi sognanti, noi restavamo ugualmente incantati dal suo gioco.

Era "bello", Kobe. Significava esplosività, tiro, fantasia, tecnica, eleganza. Kobe sta al basket come Federer al tennis, uno spettacolo per gli occhi. Kobe era la maglietta giallo-viola numero 8. Kobe la canotta con il 24. Palleggio, cambio mano dietro schiena, schiacciata in reverse. Anche chi non lo ha amato, lo ha di certo ammirato.

Non voglio raccontare la sua carriera, i primi palleggi in Italia, i cinque anelli, le medaglie con gli Usa, gli infortuni, gli 81 punti, l'addio. Se muore un uomo a 41 anni è sempre una disgrazia. "Troppo giovane", si dirà. È vero. Ma quando a dirci addio è un campione così, resta l'amaro in bocca. "Solo Dio può fermare Kobe Bryant", diceva Charles Barkley. Purtroppo è successo. Pochi di quelli che lo aduleranno sui social potranno dire di averlo conosciuto, ma per chi prova ancora oggi ad imitarlo (senza riuscirci) sui devastati campi di provincia è un colpo basso. Troppo.

Anche adesso qualcuno si chiederà: meglio lui, Jordan o Lebron? Inutile arrovellarsi il cervello. Non c'è bisogno di confrontarli perché sono il simbolo di tre momenti diversi di basket. Chi scrive considera James un alieno e Jordan una sorta di mito. Kobe era più vicino, più "nostro". Parliamo dell'effetto magico che un campione può avere sui bambini, sugli appassionati, sugli irriducibili "minors" che solcano i campetti al parco. Parliamo dei sogni, non di valutazioni tecniche. Non è un 1vs1. Per altre generazioni magari non sarà così, ma chi è cresciuto a pane e palla a spicchi tra il 1996 e il 2016 l'ha fatto guardando verso di lui. Tentava invano di imitare Kobe.

Allora guardo il fumo che sgorga da quel che resta dell'elicottero. E nella mente palleggio, cambio mano, raccolgo l'immaginario pallone e schiaccio di nuovo sbattendo la mano sullo stipite di una porta di casa. Mia sorella mi ripete: "Che cretino". Sorrido amaro. Poi, una lacrima. Per i più vecchi non so. Per i bambini di oggi chissà.

Ma per la mia generazione ieri è morto il basket.

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