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"Siamo un Paese vecchio. È questo il vero dramma più di saltare il Mondiale"

Il presidente della Dea e il flop Italia: "Sui giovani non puntiamo solo noi, ma manca il ricambio"

"Siamo un Paese vecchio. È questo il vero dramma più di saltare il Mondiale"

«San Siro è una cattedrale. Si può abbattere una cattedrale? Sì, se ne costruisci una più bella e moderna, al passo coi tempi», dice il presidente dell'Atalanta Antonio Percassi, che alla Iulm di Milano ha ricevuto ieri una laurea ad honorem in Marketing, consumi e comunicazione. Imprenditore da quando aveva 23 anni, perché «se l'intuizione è giusta, i risultati arriveranno», il suo gruppo, oltre alla Dea da poche settimane diventata americana con la maggioranza venduta a Stephen Pagliuca, conta più di 1000 negozi e 9000 dipendenti. Un'attività commerciale divisa tra brand di proprietà, come Kiko Milano, e altri sviluppati in franchising come Nike, Gucci e Lego. Insieme a diversi outlet e centri commerciali, su tutti l'Oriocenter, dal 2017 gestisce anche il Gewiss Stadium, la casa dell'Atalanta. Per questo conosce bene l'importanza di uno stadio di proprietà. «Capisco che non sia una scelta facile, lì è custodita una grande storia di Milano. Ma è anche vero che i custodi di quella storia sono i club».

Presidente Percassi, lei dunque può capire le esigenze di Milan e Inter.

«Uno stadio di proprietà oggi è fondamentale. Tutti i grandi club del mondo puntano anche su asset immobiliari per costruire una solidità finanziaria ed economica. Non posso entrare nel merito della questione, ma conosco i dirigenti di Inter e Milan, le loro competenze e ambizioni. Sono certo che stiano facendo le scelte più opportune per le squadre, i tifosi e la città».

Con la guerra, da imprenditore, che conseguenze sta riscontrando?

«Il mercato internazionale soffre per questa situazione. Noi stiamo andando bene, ma abbiamo un potenziale maggiore. In Russia e in Ucraina lavoriamo soprattutto in franchising. A farne le spese sono tutti i settori».

Per le imprese c'è la sensazione di operare ormai in costante stato di emergenza? Quali risposte servirebbero adesso?

«Semplificare, sburocratizzare. Ogni nuovo progetto in Italia ha bisogno di dieci anni per passare dalla carta alla realtà. Certo, bisogna fare le cose bene, ma bisogna farle anche in fretta, perché il mondo sta correndo a velocità mai viste e noi ogni giorno perdiamo in competitività e forza».

Bergamo e la sua comunità, dopo la pandemia, hanno reagito in maniera straordinaria. Anche grazie all'Atalanta.

«Bergamo ha fatto molto parlare di sé negli ultimi anni. Nel male con l'uragano Covid che da noi si è abbattuto con una violenza inaudita. Nel bene grazie al suo aeroporto, alla sua bellezza, che era poco conosciuta, alla capacità di reagire alle avversità e poi anche all'Atalanta. I giocatori e il mister hanno contribuito non poco a non farci cadere nello scoramento totale e di questo aiuto tutti i bergamaschi sono loro grati».

L'Italia del calcio di nuovo fuori dai Mondiali. Avete la sensazione di essere gli unici, qui da noi, a investire davvero sui giovani?

«Non siamo gli unici a credere nel settore giovanile. Però possiamo dire di essere stati tra i primi e di aver sempre coltivato con cura i giovani talenti, anche sul piano umano. La sconfitta della nazionale è stata una pagina sfortunata. Il dramma è piuttosto un altro: stiamo diventando un Paese vecchio, senza ricambio».

Vincere l'Europa League con la Dea per coronare un percorso di rinascita della città.

Sarebbe il regalo più bello?

«Se qualcuno ce lo fa, sì... Ma piedi per terra, sempre. Essere ai quarti di Europa League per Bergamo è già un risultato straordinario. Dimenticarsi di questo vuol dire farsi del male».

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