Letteratura

Lo Stato di Israele e la sponda made in Usa del sionismo mondiale

Dal sogno di Herzl di fine '800 alla sua realizzazione con Weizmann. Grazie a un giurista statunitense

Lo Stato di Israele e la sponda made in Usa del sionismo mondiale

Nel 1896 Theodor Herzl pubblicò Lo Stato ebraico, dedicato alla diaspora degli ebrei disseminati e perseguitati. Già corrispondente da Parigi del giornale viennese Neue Freie Presse, Herzl era rimasto colpito dall'antisemitismo che aveva investito la Francia all'epoca dell'affaire Dreyfus. Respingendo l'ipotesi di «assimilazione» e suggerendo l'idea di uno Stato ebraico, egli fu il fondatore del sionismo. La sua all'epoca parve una visione utopistica, ma poi le cose cambiarono: dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, l'idea di una Jewish National Home, cioè di uno Stato nazionale ebraico, si diffuse ed entrò a far parte del lessico diplomatico e internazionale.

Da suggestione visionaria il sionismo diventò un progetto politico vero e proprio che finì per interessare e accomunare ebrei sparsi in tutto il mondo, quale che fosse il loro livello di religiosità o di laicismo e quali che fossero le loro convinzioni politiche, progressiste o conservatrici. Nato nel cuore della vecchia Europa, il sionismo dilagò anche nel Nuovo Mondo, caratterizzandosi non più come movimento europeo, ma come movimento mondiale, sia pure non unitario e univoco, bensì frammentato in tanti diversi gruppi. Alle vicende del movimento sionista negli Stati Uniti durante la prima metà del Novecento è dedicato un bel volume dal titolo Il sionismo americano tra le due guerre mondiali (Le Lettere, pagg. 232, euro 18) scritto da tre specialisti di storia dell'ebraismo, Antonio Donno, David Elber e Giuliana Iurlano, i quali si sono divisi i compiti in modo da realizzare un lavoro organico che riempie un vuoto storiografico.

Il primo saggio, quello di Elber, studia il processo di riconoscimento internazionale del sionismo nel periodo compreso fra l'inizio della Conferenza di Parigi nel 1919 e il 1923, quando Chaim Weizmann, poi primo presidente dello Stato di Israele, presentò, a nome della delegazione sionista da lui guidata, il memorandum contenente il progetto di ricostruire una patria ebraica in Palestina. Ebreo di origine russa naturalizzato cittadino britannico, Weizmann - il quale fu anche uno scienziato di fama internazionale - si presentò come portavoce di una visione del sionismo del tutto particolare che la Iurlano definisce «un insieme complesso di spiritualità antica, di pragmatismo colonizzatore, di recupero e di rivitalizzazione dell'ebraico, di cultura scientifica e di ritorno a una sola e unica terra, la Palestina». Era, la sua, una visione del sionismo per molti aspetti ben diversa da quella più politico-diplomatica, di Herzl che nel sesto congresso internazionale sionista di Basilea del 1903, presieduto proprio da Herzl, aveva portato all'approvazione della proposta inglese di insediare lo Stato ebraico in una parte dell'Uganda, all'epoca dominio coloniale britannico: una proposta che rischiò di provocare una scissione in seno a quell'organismo e mise in crisi persino la leadership di Herzl, peraltro morto di lì a breve ancora in giovane età.

Qualche anno dopo, nel 1906, Weizmann incontrò Arthur James Balfour per illustrargli il significato del movimento sionista. Al politico britannico, esponente del partito conservatore, che lo osservava imperturbabile disse che bisognava liquidare «l'eredità dell'Uganda» lasciata da Herzl e chiese: «Signor Balfour, supponga che le offra Parigi al posto di Londra: la prenderebbe?». Questi, sorpreso, lo guardò fisso negli occhi e rispose: «Ma, signor Weizmann, Londra l'abbiamo già!». Al che Weizmann replicò: «Questo è vero, ma noi avevamo Gerusalemme quando Londra era una palude». E fu la premessa per la Dichiarazione Balfour.

Leader indiscusso del sionismo europeo, Weizmann si confrontò con un grande giurista americano, Louis D. Brandeis, giudice della Corte Suprema che considerava il sionismo un modo di rivitalizzare «lo spirito ebraico», oltre che uno strumento utile per risolvere la «questione ebraica» e contrastare l'antisemitismo particolarmente diffuso in alcuni Paesi europei e in Russia. Noto come libertario di sinistra, difensore dei diritti civili, della libertà di espressione e dei diritti sindacali, Brandeis non era un radicale, ma si collocava lungo una linea di transizione dal progressismo al New Deal. Rampollo di una famiglia ebraica immigrata, si era immedesimato nei valori del liberalismo americano, tanto che, in polemica con quanti accusavano i sionisti di «doppia lealtà», arrivò a sostenere che la lealtà agli Stati Uniti richiedeva che ogni ebreo americano diventasse sionista.

Il volume di Donno, Elber e Iurlano sottolinea e analizza le differenze e i contrasti - che, in realtà, riguardavano più i tempi e le modalità operative che non l'obiettivo finale - tra il sionismo europeo e quello americano, nonché i tentativi di conciliazione e di convergenza.

Si tratta di un lavoro innovativo, a mezza strada fra storia politica, storia intellettuale e storia delle relazioni internazionali: un lavoro, in conclusione, che introduce a un tema in realtà assai poco conosciuto e che offre strumenti per comprendere anche la realtà contemporanea a cominciare dal rapporto fra gli Stati Uniti e Israele.

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