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La radio è subito diventata il primo social (ed è il medium che sa rinascere)

Nel 1924 la prima trasmissione in Italia. Poi le «private» e ora la «radiovisione». Ma niente rende visibile l'invisibile così bene

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Quanto tempo è trascorso da quel primo annuncio, dalla voce di Ines Viviani Donarelli che battezzò la radio in Italia: «Uri, Unione Radiofonica Italiana. 1-RO: stazione di Roma. Lunghezza d'onda metri 425. A tutti coloro che sono in ascolto il nostro saluto e il nostro buonasera. Sono le ore 21 del 6 ottobre 1924...».

Un secolo fa. In Italia gli apparecchi erano qualche decina al massimo. Oggi la radio è ascoltata (dati Radioter appena aggiornati) da 35 milioni e 340mila ascoltatori nel giorno medio, una quantità enorme, una massa che fa opinione e che è commercialmente molto appetitosa. E in questi cento anni in Italia è passata dal monopolio della Rai alle cosiddette radio private e ora alla «radiovisione», ossia alla radio che si ascolta in radio ma che si vede anche in tv (intuizione fortemente messa in pratica da Lorenzo Suraci di Rtl 102.5 e ora di uso quasi comune). È stata la radio, con la voce di Corrado Mantoni, ad annunciare la fine della Seconda guerra mondiale. Primo pomeriggio del 9 maggio 1945: «Interrompiamo le trasmissioni per comunicarvi una notizia straordinaria: la guerra è finita, ripeto la guerra è finita».

In quel momento cambiava il mondo.

Nonostante abbia un secolo, la radio è ancora adolescente perché fatica a invecchiare, è legata a doppio filo con il pop che per definizione non invecchia mai. Il pop è il termometro dell'attualità e la radio misura il pop. Non solo quello musicale, che è sempre centrale in quasi tutti i palinsesti e che tuttora prende forma, si consolida e diventa globale anche, spesso soprattutto, attraverso le trasmissioni radiofoniche in tutto il mondo a tutte le ore. Soprattutto, la radio rende «trasversale» la musica pop, la trasferisce di generazione in generazione ed è un valore aggiunto specialmente oggi, nell'epoca della «verticalizzazione» dei gusti (ad esempio chi è conosciuto dalla Gen Z spesso è totalmente sconosciuto a tutti gli altri).

Ma, festeggiando il secolo di vita italiana, la radio esalta una caratteristica che per decenni è passata sotto traccia ma che ora è luminosamente evidente: è stata il primo social network della storia. E non serve soltanto pensare a Chiamate Roma 3131, la trasmissione di Radio2 che dal 1969 al 1995 è stata il «primo tentativo in Italia di contatto diretto e senza filtri tra l'ascoltatore ed il mezzo di comunicazione». La radio è stata sin da subito il primo medium capace di trasmettere istantaneamente, e a distanza, una informazione a una quantità smisurata di persone, una caratteristica che nell'epoca delle news in tempo reale sembra quasi scontata ma che è stata unica e decisiva per decenni.

Ecco, l'unicità.

La radio l'ha sempre conservata, «resistendo» all'arrivo della televisione e ai suoi linguaggi spesso diametralmente opposti. Ora è la comunicazione invasiva e virale dei social network a minacciare questa unicità. Forse senza volerlo, molti network assorbono lo stile e i contenuti di X o di Instagram travasandoli nei loro palinsesti. È una perdita di potenzialità e riconoscibilità comunicativa che forse sarà compensata con il tempo con quella capacità di adattamento che la radio continua a dimostrare. Prendiamo ad esempio la cosiddetta «radiovisione» che il critico Aldo Grasso ha impietosamente ridotto a «Tv di Serie B». In effetti, riprese e montaggi spesso hanno ancora un rilievo quasi dilettantesco. Ma la differenza resta sempre la stessa: una radio si può godere anche a occhi chiusi e, ascoltandola, l'invisibile diventa visibile.

Un piccolo miracolo che tuttora non riesce a nessun altro.

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