Letteratura

Dopo tanto sarcasmo, avventure e monellerie Twain s'innamorò della "Pulzella d'Orléans"

In "Memorie della vita di Jeanne d'Arc" c'è il lato quasi mistico dello scrittore

Dopo tanto sarcasmo, avventure e monellerie Twain s'innamorò della "Pulzella d'Orléans"

Mark Twain non è mai stato uno scrittore propenso all'omologazione, ma il lettore medio difficilmente si aspetterebbe da un suo romanzo ciò che lui, al secolo Samuel Langhorne Clemens, ha inteso regalarci con la sua biografia di Giovanna d'Arco. Twain deve in larga parte la sua fama a storie in cui la parte del leone la fa la sua inusitata capacità di strappare al lettore un sorriso anche nelle situazioni più banali. La chiave ironica, se non apertamente sarcastica, del suo stile letterario, talmente infarcito di doppi e tripli sensi da mettere decisamente in difficoltà il povero traduttore di turno, ha fatto epoca.

Memorie della vita di Jeanne d'Arc (Mattioli 1885, pagg. 532, euro 18, traduzione di Livio Crescenzi), pubblicato nel 1896, è dichiaratamente l'opera a cui Twain teneva maggiormente, quella a cui affidò in qualche modo la sua credibilità artistica, al punto da effettuare diversi viaggi a Parigi per documentarsi sull'argomento negli anni in cui visse a Berlino con la sua famiglia. Bisognerebbe chiederlo al traduttore che, insieme all'editore, sta curando l'opera omnia di Twain, ma ho la sensazione che, almeno in questo caso, l'autore gli abbia risparmiato la faticaccia di battute intraducibili.

L'ossessione di Mark Twain per la figura della «Pulzella d'Orléans» è testimoniata anche dalla scelta di narrarne le gesta come se a raccontarle fosse Sieur Louis de Conte, suo paggio e scrivano. E l'ostinazione con cui Twain esce dal seminato - non tanto nella scelta del periodo storico, visto che in passato aveva già visitato l'Europa medievale e rinascimentale con i romanzi Un americano alla corte di re Artù e Il principe e il povero, quanto nell'utilizzazione di una chiava narrativa più seria - sottende un afflato quasi mistico, appropriato alla materia trattata. Tra le righe si percepisce quasi una soggezione religiosa. Forse si tratta di autosuggestione, ma credo che a Twain non dispiacerebbero né l'una né l'altra ipotesi: è facile immaginarlo ridere sotto i suoi baffoni bonari.

Se, come detto, il rispetto quasi sacro per la protagonista spegne gli ardori sarcastici che ci hanno fatto amare Twain, non manca la sua capacità di descrivere situazioni e fatti come soltanto un grande narratore sa fare. Si prenda, per esempio, un elemento immancabile in una vicenda antica che si rispetti: la peste. Bastano poche righe per raccontarla mirabilmente: «Le epidemie spazzavano via la gente come mosche, e le sepolture si eseguivano di notte e in gran segreto, perché i funerali pubblici non erano consentiti, per evitare che la rivelazione dell'enormità degli effetti provocati dalla peste avvilisse il popolo e lo facesse sprofondare nella disperazione».

Il romanzo contiene anche una delle frasi più celebri di Twain, una di quelle citazioni che tanto piacciono al pubblico della rete e che spesso sono attribuite a sproposito a questo o quel personaggio. Per una volta, la citazione effettivamente è farina del sacco dell'autore, messa in bocca alla Pulzella: «È la testa di questo povero sconosciuto che fa le cose cattive, ma non è la sua testa ad avere fame, è il suo stomaco e lo stomaco non ha fatto male a nessuno». Tutti conoscono la vicenda della Pulzella d'Orleans, ma pare che Twain si sia avvalso abbondantemente delle corpose carte processuali che portarono alla sua condanna e messa al rogo per restituirle credibilità storica, seppur attraverso le pagine di un romanzo.

Non si sarebbe mai perdonato se il suo romanzo avesse mostrato crepe nella ricostruzione dei fatti.

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