Trattato di Osimo: ora l’unica speranza è nell’effetto Europa

Livio Caputo

Si avvicina l’anniversario di un avvenimento infausto nella storia del nostro Paese: la firma del Trattato di Osimo, con cui trent’anni fa l’Italia rinunciò alla zona B dell’ex Territorio Libero di Trieste e chiuse in maniera complessivamente molto svantaggiosa ogni contenzioso con la Jugoslavia. Fu un atto diplomatico preparato in gran segreto, per timore di reazioni negative dell’opinione pubblica, e ratificato solo dopo un tumultuoso dibattito in Parlamento in cui si levarono molte autorevoli voci contrarie. Fu, da un lato, un frutto avvelenato dell’avvicinamento all’area di governo del Pci, fin dall’immediato dopoguerra favorevole a concessioni territoriali a Belgrado, dall’altro di una situazione internazionale in cui Tito, a seguito della dissociazione da Mosca e della leadership in movimento dei non allineati aveva assunto un ruolo superiore al peso reale del suo Paese. Ma il trattato fu anche il risultato della debolezza e scarsa coscienza nazinale del nostro governo, che grazie allo sviluppo economico dell’Italia e al suo pieno inserimento nell’Alleanza atlantica e nella Comunità Europea, si trovava in una posizione molto più forte di quello del ’47, che aveva dovuto subire il diktat con cui fummo amputati della Dalmazia e della venezia Giulia. Ancor oggi c’è chi sostiene che gli architetti del trattati - in primis il ministro degli Esteri Rumor, ma anche i parlamentari che lo approvarono nelle due Camere - sarebbero addirittura passibili dell’ergastolo in base all’art. 241 del Codice penale, che punisce «chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero».
Invece, come spesso accade nel nostro Paese, la eco del trattato nel grande pubblico si spense presto e a puntare il dito contro i responsabili rimasero soltanto gli esuli, che ne pagarono le conseguenze per la virtuale rinuncia ai beni confiscati da Tito, e i triestini che dovettero accettare come definitive frontiere terrestri e marittime soffocanti.
L’Italia avrebbe avuto la possibilità di rimediare almeno in parte all’arrendevolezza del ’75 sedici anni dopo, al momento della dissoluzione della Jugoslavia. Nulla ci avrebbe impedito di chiedere una parziale revisione del trattato come condizione preliminare al riconoscimento della Croazia e della Slovenia, eredi per ragioni geografiche dei patti stipulati a suo tempo con Belgrado. Modifiche concordate dei trattati sono previste esplicitamente dal Diritto internazionale alla presenza di «mutate circostanze». Invece, il governo di allora lasciò che le sue nuove Repubbliche subentrassero alla Jugoslavia senza pagare pegno, sebbene il nuovo ordine violasse palesemente almeno l’articolo di Osimo che tutela l’unità della superstite comunità italiana dell’Istria. Il nostro giornale raccolse allora in poche settimane 160.000 firme per chiedere la denuncia di Osimo ma invano. Se l’iniziativa non servì a smuovere l’ultimo governo della prima Repubblica, ebbe tuttavia l’effetto di attirare l’attenzione degli italiani su un problema che essi avevano a tutti gli effetti rimosso e mise così in moto i meccanismi che negli ultimi anni hanno riportato alla ribalta il dramma dell’esodo e la tragedia delle foibe. Per la verità il primo governo Berlusconi tentò anche di ottenere da Lubiana e Zagabria una restituzione almeno parziale delle proprietà italiane, ma il momento favorevole era passato e, di fronte al muro di gomma dei due neonati Stati, l’Italia dovette accontentarsi di concessioni molto modeste.
A trent’anni di distanza si può ragionevolmente sostenere che il Trattato di Osimo fu, se non un crimine come sostengono gli oltranzisti, certo un errore. Un errore basato sulla erronea convinzione che la Jugoslavia fosse destinata a rimanere un attore importante della scena internazionale e che pertanto fosse opportuno chiudere - anche in perdita - i conti rimasti aperti dalla Seconda guerra mondiale. Sarebbe invece bastato aspettare qualche anno per trovarsi di fronte prima un interlocutore molto più debole e poi addirittura de piccoli Stati dal peso diplomatico molto limitato. D’accordo che sarebbe stato difficile modificare le frontiere fissate negli anni Cinquanta, ma su molti punti, non esclusa la zona B, si sarebbero potute ottenere condizioni migliori.

Invece, ora Slovenia e Croazia possono opporre alle nostre pur sacrosante richieste il classico «pacta sunt servanda» e noi possiamo solo sperare nell’effetto Europa per tornare a esercitare, in quelle terre che furono italiane, almeno un maggior peso economico e culturale.

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