Cultura e Spettacoli

Ugo Ojetti, il «restauro» di una collezione capolavoro

Giornalista e scrittore, storico e critico d’arte, collezionista, direttore di riviste e quotidiani, Ugo Ojetti (1871-1946) fu un personaggio chiave della vita culturale italiana della prima metà del Novecento. Nel 1911, cinquantenario dell’unità d’Italia, pensò e realizzò una della più belle rassegne della nostra storia dell’arte, la mostra del «Ritratto italiano», aperta in Palazzo Vecchio a Firenze con un catalogo rimasto leggendario. Dieci anni dopo fu la volta della pittura italiana del Sei e del Settecento, secoli che si rivelarono miniere inesplorate e feconde occasioni di studi destinati a durare decenni. Da questa mostra nacque il Caravaggio moderno.
Utopista e socialista, Ojetti si accosta all’arte con uno sguardo tutto suo. Parte dal ritratto per giungere al carattere, si confronta con l’opera come se questa fosse una «persona viva», esercita la critica «da vivo a vivo». Il rapporto con l’opera d’arte che ha dato origine a tanti scritti e a innumerevoli rubriche, da Cose viste a Ritratti di artisti italiani, è, scrive, un’«avventura». Da questo impegno e da questa fede nascono le mostre e gli scritti, le scoperte, le rivelazioni critiche. La storia dell’arte non è una disciplina fine a se stessa, perché l’arte ha un compito innanzitutto sociale e il critico deve contribuire a «difenderla e diffonderla». Nessun estetismo, ma una fede profonda nella certezza di uno scopo morale. Un artista, antico quanto contemporaneo, deve «parlare a tutti, parlare franco, misurar le parole», e le sue opere dovranno rimanere un «esempio di lealtà, di fede, di coraggio».
Amico di tanti artisti e pioniere nella riscoperta dei linguaggi del secolo appena passato che l’Italia disprezzava, Ojetti radunò una straordinaria collezione che raccolse nella sua cinquecentesca elegantissima dimora, «Il Salviatino», sulle colline di Firenze. Ricostruita dopo la dispersione che seguì la sua morte, la collezione oggi è esposta a Viareggio, nella sale del Centro Matteucci per l’Arte Moderna («Da Fattori a Casorati. Capolavori della collezione Ojetti», fino al 12 settembre, a cura di G. De Lorenzi).
Da Boldini a Fattori, da Oscar Ghiglia a Libero Andreotti a Giuseppe De Nittis, la raccolta privata dello scrittore si affianca alla sua opera letteraria, quasi ne fosse una sorta di eccezionale apparato illustrativo. Se Ojetti ritrae i contemporanei a parole, questi lo ripagano con ritratti dipinti e scolpiti. Le effigi di Domenico Trentacoste, Oscar Ghiglia e Antonio Berti segnano le tappe della sua vita: dalla giovanile idealità al tempo del pamphlet su i Diritti e doveri del critico d’arte moderna, all’intensa concentrazione, in tutti i sensi, della tela dell’amico livornese Ghiglia che lo ritrae nello studio, fino alla fine, alla commossa terracotta del prediletto scultore fiorentino che Ojetti aveva scoperto da ragazzo. Affranto, stanco, inerte: da pochi mesi, finito il fascismo, il vecchio direttore del Corriere della sera, l’editore di Dedalo e di Pegaso, l’autore di decine e decine di volumi, era stato cancellato dall’albo dei giornalisti..

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