Cultura e Spettacoli

Zagrebelsky & Co., quelli che... son democratici soltanto loro

Sulla democrazia e sul liberalismo, e sulle loro convergenze e divergenze, sono stati scritti migliaia di libri. Difficile, per non dire impossibile, aggiungere qualcosa di nuovo. È possibile invece fare qualche osservazione «sul campo», quando ci si imbatte in alcune manifestazioni relative all’una o all’altra corrente di pensiero, o all’incontro-scontro fra le due. Ce ne offre ora l’occasione l’ultimo numero della rivista Paradoxa, che ospita una serie di interventi polemici su alcuni importanti intellettuali che fanno opinione pubblica in Italia: Michelangelo Bovero, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Massimo L. Salvadori, Nadia Urbinati, Maurizio Viroli, Gustavo Zagrebelsky. Il succo polemico di questi interventi a opera, rispettivamente, di Alberto Giordano, Tarcisio Amato, Mario Quaranta, Daniele Rolando, Daniela Coli, Maurizio Griffo, Dino Cofrancesco, si può riassumere così: tutti gli intellettuali sopra citati, sia pure a titolo diverso, sono accusati del medesimo «reato»: essere campioni di una democrazia che non solo non è liberale (e, fin qui, niente di grave), ma è antiliberale, con il risultato che questo antiliberalismo finisce per intaccare la stessa cifra democratica del loro credo democratico.
A partire da questa constatazione, i critici di Paradoxa si unificano sostanzialmente su questo giudizio: a ben guardare, le vere formulazioni concettuali della democrazia sono soltanto due: democrazia diretta o democrazia rappresentativa. A loro giudizio, essendo la democrazia diretta di impossibile attuazione, negli ultimi due secoli si è imposta la democrazia rappresentativa. Ora è questa democrazia, definibile anche come democrazia liberale, a essere sotto osservazione critica da parte degli intellettuali sopra citati; lo è, soprattutto, per quanto riguarda l’Italia, a causa delle tormentate vicende degli ultimi vent’anni che hanno caratterizzato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Ovviamente quando si parla di questo ventennio non si può non parlare di Berlusconi e del cosiddetto berlusconismo.
Secondo Griffo, Maurizio Viroli presenta il nostro Paese come una nazione in preda a una profonda malattia morale dovuta alla scarsa tempra civile dei suoi abitanti. La libertà degli italiani è la libertà dei servi (così suona anche il titolo di un suo libro pubblicato da Laterza), cioè la libertà di chi, per vigliaccheria e per il suo «particulare», ha smarrito ogni senso di sé, affidandosi a quello che Viroli rappresenta come un vero e proprio imbonitore. Viroli riprende perciò alcuni stereotipi tipici di una «lettura pseudo guicciardiniana della storia d’Italia». Ne consegue che gli italiani, di fronte a questo degrado, si salveranno solo se saranno capaci di opporre il rigore di un’etica pubblica.
Il pensiero di Ginsborg è analizzato da Mario Quaranta, che sottopone a critica la proposta di innestare, sulla democrazia formale di Stuart Mill, quella sostanziale di Marx. Tentativo, a giudizio di Quaranta, del tutto inconsistente per l’evidente impossibilità di operare una sintesi fra democrazia liberale e democrazia comunista. Inconsistente è anche - per Alberto Giordano - l’idea di Bovero, volta a delineare una democrazia liberata dalla logica del mercato. Canfora, studiato da Tarcisio Amato, si spinge più in là, affermando che vi è una sola democrazia, quella dell’egualitarismo politico-sociale, la cui espressione dottrinaria si rintraccia nella versione giacobino-leninista, mentre le altre formulazioni democratiche rientrano in un’effettiva mistificazione, tanto da poter dire che la storia della democrazia non è altro che la storia di un’ideologia.
Per certi versi, sulla scia di Canfora, cioè per la rivendicazione di una democrazia sostanziale, si colloca pure la Urbinati, la cui concezione è ricostruita da Daniela Coli. La Coli pone in risalto l’obiettivo polemico della Urbinati, rintracciabile negli effetti oligarchici della democrazia formale, che per gli elettori si risolve nella sola possibilità-beffa di scegliere, di volta in volta, l’élite che li governerà. Ancora sulla mitica contrapposizione fra democrazia formale e democrazia sostanziale va letto il discorso di Salvadori, preso in considerazione da Daniele Rolando. Questi afferma che Salvadori, dopo aver discusso le alternative democratiche presentatesi storicamente, non riesce a dimostrare una reale alternativa alla democrazia rappresentativa.
Dove però la vis polemica contro i censori della democrazia formale appare più diretta e sferzante è senz’altro nell’intervento di Dino Cofrancesco su Gustavo Zagrebelsky. Cofrancesco giudica l’idea democratica di Zagrebelsky «un pluralismo di facciata». La concezione democratica del giurista torinese delegittima la democrazia esistente e ne ignora le ragioni. Annulla «i confini tra etica e politica» e prescrive «un pensiero unico antifascista, che pone forti vincoli alla libertà di ricerca»; pertanto essa è «incompatibile con la democrazia liberale». Le argomentazioni zagrebelskyane risultano avverse all’adagio di Tacito, sine ira et studio, essendo al servizio di un pensiero penetrato dalla convinzione di possedere la verità. Contrariamente al magistero di Bobbio, Zagrebelsky non è interessato a presentare le ragioni altrui, ma a piegare ogni ragionamento ai propri convincimenti. La sua tendenza intellettuale è pervasa da un irrimediabile vocazione pedagogica e profetica, lontana da ogni bilancio critico e autocritico. Si tratta di uno stile di pensiero latentemente totalitario, che può «venire equiparato al fascismo, giacché, nell’uno e nell’altro, una ricetta particolare di redenzione nazionale deve diventare la ragione politica di tutti».


Dall’insieme di questi interventi polemici sui critici della democrazia liberale si ricava l’impressione che quest’ultimi siano incapaci di liberarsi dall’ipoteca giacobina di stampo rousseauiano, secondo la quale va distinta la volontà genuina, conforme all’universale, dalla volontà apparente, conforme al particolare; distinzione, come è noto, che ha fatto da apripista ai vari totalitarismi novecenteschi, tutti fondati sul presupposto, da parte dei loro vari propugnatori, di sapere qual è il vero bene del popolo.
Se è così, Dio ce ne guardi e liberi da questi profeti.

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