Cronaca nera

"Fuori da ogni sospetto". Le rivelazioni del poliziotto sullo zio della Orlandi

Un investigatore che seguì dall'inizio la scomparsa di Emanuela Orlandi, e indagò per 20 anni, esclude un ruolo dello zio Mario Meneguzzi

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Mario Meneguzzi non c’entra, “con la sparizione della nipoteEmanuela Orlandinon ha nulla a che fare”. La testimonianza che potrebbe chiudere questa querelle che ha fatto emergere un episodio di avances verbali avvenuto nel 1978 arriva da un investigatore di primo livello che seguì in prima persona il caso Orlandi, intervistato sul Corriere della Sera.

Nei giorni scorsi il TgLa7 ha raccontato della corrispondenza tra Agostino Casaroli, all’epoca segretario di Stato Vaticano, e un sacerdote in missione in Colombia, confessore di Natalina Orlandi: il segretario di Stato chiese al confessore se fosse vero che Natalina avesse subito molestie dallo zio Mario Meneguzzi, marito della zia paterna, ricevendo risposta positiva. In conferenza stampa Natalina Orlandi ha raccontato la vicenda, spiegando di aver respinto lo zio e di essere andata avanti in silenzio per rispetto alla congiunta. Solo il sacerdote e il suo fidanzato ne sarebbero stati messi al corrente.

Ma, se da un lato è vero che si indagò su Meneguzzi, dall’altro, per gli inquirenti fu subito evidente che l’uomo fosse estraneo alla scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta peraltro nel 1983. “Su Mario Meneguzzi ci attivammo, su nostra iniziativa autonoma - ha raccontato l’investigatore - fin dalle primissime ore. Ci colpì quel suo attivismo eccessivo, i modi di fare di chi sembrava sicuro di essere più importante di un semplice zio di Emanuela Orlandi. Poi però chiarimmo tutto e capimmo anche il perché si comportasse così. Con la sparizione della nipote non ha nulla che fare”. In altre parole l’inquirente chiarisce che non furono informati da Casaroli, né fu la procura di Roma ad avvertirli dell’episodio che vide protagonista Natalina Orlandi. Ma resta l’interrogativo su chi avesse informato per primo Casaroli.

Secondo l’inquirente, Meneguzzi si attivò in quel modo perché aveva la possibilità di aiutare i suoi parenti, nella speranza di trovare Emanuela Orlandi: “Meneguzzi fece quello che era giusto fare, data la sua posizione. […] lavorando al bar della Camera, avendo amici nei servizi segreti, era normale che anche la famiglia lo investisse del ruolo di risolutore di quella situazione così drammatica. Aveva conoscenze, amicizie, poteva bussare a porte che alla famiglia sarebbero state invece precluse. Ripeto, si rivelò al di sopra di ogni sospetto”.

Nell’intervista viene spiegato che gli inquirenti non chiesero a propria volta aiuto a Meneguzzi, ma che a loro parse normale che fosse lui a rispondere ai rapitori, data la situazione. E l’investigatore lancia una propria teoria, escludendo il depistaggio che conduceva al presunto coinvolgimento di Mehmet Ali Ağca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II. E questa teoria non è lontana da ciò che crede Pietro Orlandi: ovvero che la pista famigliare sia l’ennesimo depistaggio e che il fratello è nel giusto quando invoca la Commissione parlamentare per Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.

Tra tutte le tantissime piste prese in considerazione e seguite - ha concluso l’investigatore - la più probabile, anche se non dimostrata, resta quella di una sovrapposizione tra un caso di pedofilia interna al Vaticano e un inserimento di

soggetti esterni che hanno provato a usare il caso a loro vantaggio. Penso alla banda della Magliana e al tentativo di riavere somme di denaro dal cardinale Marcinkus. Qualcosa di simile a quanto accaduto con Calvi”.

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