Controcultura

La "guerra" dello streaming decide il futuro della musica

Chi sta fuori dalla Rete rischia l'estinzione. O si arricchisce...

La "guerra" dello streaming decide il futuro della musica

È la nuova battaglia: streaming no, sì, forse. E tanti grandi nomi del pop (ma non solo grandi) giocano su questo campo una partita decisiva per trovare le linee guida del futuro musicale. Intanto spieghiamo: dopo anni di polemiche sul download di album e singoli brani, adesso il dibattito si è spostato sul semplice ascolto. In fondo è la riproposizione, mutatis mutandis, di quella faida che, dal diritto romano in avanti, distingue anche ideologicamente la proprietà dal semplice possesso. Il download è la proprietà della musica. Lo streaming è il possesso, volatile e spesso compulsivo, oggettivamente consumista. Negli ultimi anni sempre più artisti hanno detto no a tutte le piattaforme streaming ma quasi tutti, a parte gli intransigenti Tool di Maynard Keynes Keenan e qualche altra eccezione come King Crimson o Pete Townshend o Garth Brooks che non accettano vendita e ascolto online, giostrano la permanenza su piattaforme come Spotify o Deezer a seconda della propria (legittima) convenienza.Uno dei casi più eclatanti è quello di Taylor Swift che, mentre dichiarava al Wall Street Journal che lo streaming è come la pirateria, ha rimosso dai cataloghi non soltanto l'ultimo disco 1989 ma pure tutto il proprio repertorio. Oppure i Beatles che, nonostante i dischi di John Lennon siano tranquillamente ascoltabili, si sono finora negati. Qualche volta sono scelte comprensibili: Garth Brooks è fortissimo negli States, suona il country e il suo pubblico, che è anagraficamente medio alto, sceglie comunque il disco fisico. Townshend o King Crimson sono obbligati a tener fede a decennali e sbandieratissime convinzioni. Ma la linea di molti è più volatile di un ascolto streaming. Tanto per fare un nome: Thom Yorke. Il suo repertorio solista non è in streaming e quello dei suoi Radiohead è pubblicato a macchia di leopardo: c'è tutto il catalogo del periodo Emi, un album di remix e però anche l'ultimo King of Limbs. Vai a capire il perché. La maggior parte degli artisti, in ogni caso, fiuta l'andamento del mercato. C'è chi, come Adele, vende cinque milioni di copie fisiche in 15 giorni solo negli States e quindi perché dovrebbe aprirsi allo streaming molto meno redditizio? Altri lo fanno soltanto per raggiungere gli under 30. Gli Ac/Dc solo a luglio sono finalmente arrivati su Spotify, Google Music e Apple Music. Idem hanno fatto, quasi per rassegnazione, Pink Floyd, Metallica e Led Zeppelin, disponibili solo dal 2013. Molti, specialmente chi ha una «fan base» molto fedele, accetta lo streaming solo dopo aver esaurito le aspettative di vendita del disco fisico o in download. Lo hanno fatto Beyoncè, Black Keys e da poco i Coldplay. E anche in Italia le valutazioni non sono casuali. Quando Vasco Rossi ha pubblicato Sono innocente ha deciso di non renderlo disponibile né su Spotify né su Deezer. Mondovisione di Ligabue è diventato ascoltabile soltanto nove mesi dopo la pubblicazione. Però, tanto per capirci, nessun italiano è come Lucio Battisti, che rischia l'estinzione della memoria, visto che non si trova (pare per volontà della vedova) né in download né in streaming. Una scelta che potrebbe avere gravissime ripercussioni: le nuove generazioni di ascoltatori non possono conoscere online il grande Battisti, quindi non lo ascoltano e rischiano di dissiparne la strepitosa eredità. Poi ci sono gli ondivaghi.Il più imprevedibile di tutti è Prince, che odia YouTube e poi va e viene dalle piattaforme streaming a seconda, probabilmente, del suo umore. In estate il suo HitNrun phase one è uscito soltanto su Tidal e pure HitNrun phase two è arrivato soltanto su Tidal a sorpresa qualche giorno fa. Insomma, è una giungla nella quale i più confusi sono necessariamente gli ascoltatori. Il filo conduttore che guida gli artisti in queste scelte è (nessuno escluso) il profitto. Legittimamente, per carità. C'è chi sventola fantomatiche richieste di equità. C'è chi non spiega nulla. Ma tutti sono attentissimi a monetizzare la propria musica. In un certo senso, la «guerra dello streaming» toglie la sempre più rinsecchita foglia di fico di molti artisti: tutti, vivaddio!, suonano per passione e talento ma anche per sopravvivere e far sopravvivere le proprie «aziende». Perciò la (sempre più piccola) «vacatio legis» in materia, ossia la carenza di disciplina contrattuale e di giurisprudenza relativa, consente a tanti di fare scelte opportunistiche e, comunque, modificabili. Forse, come dice l'italiano Caparezza, «lo streaming presto sarà sorpassato da qualcosa di nuovo».

Ma sicuramente è il cardine decisivo per il futuro commerciale della musica perché questa battaglia deciderà l'assetto dei prossimi investimenti: a breve termine (con un pop fugace) oppure a medio lungo (con una musica di conseguenza più progettuale).

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