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Confidenza di Palamara: "Sì, la Lega è nel mirino"

L'ex pm imputato vede "plotoni di esecuzione". Il ministro D'Incà (M5s): problemi se finisce 4 a 2

Confidenza di Palamara: "Sì, la Lega è nel mirino"

Il copione è quello di ogni campagna elettorale: fioccano le inchieste e gli arresti che questa volta si accaniscono sulla Lega; ci sono gli appelli alle crociate (chi contro l'immigrazione, chi contro l'ennesimo pericolo fascista); e, intanto, si studiano le simulazioni di ciò che potrebbe accadere combinate con i possibili risultati delle urne. Insomma, nulla di nuovo. Di nuovo c'è, semmai, che la ruota gira e chi assisteva alle campagne elettorali nella cabina di regia di quella che una volta andava sotto il nome di giustizia ad orologeria, oggi, invece, si ritrova addosso il non invidiabile ruolo del bersaglio. Vedi Luca Palamara, una volta leader dell'Associazione Nazionale Magistrati e ora imputato e inviso alle toghe più politicizzate dopo che le intercettazioni sul suo telefonino hanno svelato la zona grigia del rapporto tra politica e magistratura. «Anch'io si sfoga sto provando l'esperienza di chi si aspetta di avere un giudizio imparziale e si accorge, invece, di essere solamente in balia di un plotone di esecuzione. Alla faccia dei tempi ragionevoli del processo: mi hanno fissato dodici udienze in quindici giorni perché vogliono arrivare al verdetto prima che Davigo vada in pensione». Fin qui Palamara racconta la sua scomoda posizione di oggi, poi, però, l'uomo che potrebbe essere definito il Buscetta, il pentito della magistratura interventista, che proprio in un'intercettazione svelava l'intenzione di settori di «sinistra» togata di far male a Salvini, vede in ciò che sta avvenendo tra inchieste, arresti e il ritorno mediatico della vecchia indagine sulla Russia, i segnali di quella logica politica: «Se tutto questo è la riproposizione del vecchio gioco che ora ha nel mirino la Lega? Esatto...».

Una risposta chiara, laconica e quasi rassegnata. Un po' come gli antichi parlavano del Fato. Ormai tutti mettono nel conto l'imperversare del «protagonismo» giudiziario alla vigilia di una consultazione elettorale. C'è una sorta di assuefazione, al punto che non sai neppure quanto possa incidere sull'opinione pubblica. Anzi, addirittura, c'è chi scommette che spesso l'effetto è opposto a quello desiderato. «La verità spiega la maga Ghisleri è che le persone sono infastidite. Addirittura questi argomenti finiscono per galvanizzare gli elettori dei bersagli, che vedono nei loro beniamini dei martiri. È un meccanismo perverso: ad esempio, che senso ha indicare gli impresentabili nelle liste a due giorni dal voto?! Semmai avresti dovuto farlo settimane prima per dar modo, a chi avesse voluto, di cambiare le candidature. La verità è che tutto ormai appare strumentale».

Strumentale al punto che la ripetizione, la scontatezza del meccanismo, questi trent'anni trascorsi all'insegna dell'uso politico della giustizia, ha fatto assumere al fenomeno i tratti della parodia. È diventato difficile anche prendere sul serio il network «giustizialista», specie ora che è diventato custode dell'ortodossia di questo governo. Marco Travaglio, ad esempio, contagiato dai timori elettorali, ieri, si è proposto come un novello Indro Montanelli e ha chiesto agli elettori grillini di turarsi il naso e votare i candidati Pd. Contemporaneamente il suo giornale, Il Fatto, da un lato continua per l'ennesima volta a mettere in prima pagina, dando «voce» al solito solo alle congetture dei Pm, la vicenda dei commercialisti della Lega; dall'altro relega in decima pagina prendendo per buona la versione dell'avvocato della difesa una novità assoluta da quelle parti - la storia dei fratelli di Colleferro che hanno picchiato a morte il povero Willy, accusati di aver beneficiato, attraverso le loro famiglie, del reddito di cittadinanza. Motivo? Non fa comodo alla vigilia del voto gettare merda sulla madre di tutte le battaglie grilline, per cui l'house-organ del giustizialismo italiano si è reinventato campione del «garantismo» strumentale. «Un garantismo precisa il neo-calendiano, Enrico Costa figlio non della convinzione, ma della convenienza».

Appunto, tutto può servire a tenere in piedi un equilibrio di governo che a 24 ore dal voto appare anche ai protagonisti della maggioranza alquanto fragile. Se ne è accorto il premier che dopo aver trascorso quasi un mese obbligandosi ad un rigoroso silenzio, per defilarsi da una possibile sconfitta elettorale, ha scoperto l'uso della parola. E questo perché al di là della narrazione ufficiale che non intravede nessuna alternativa a questo governo, uno la può girare come vuole, ma il consenso conta, eccome. E rischiare, nel caso peggiore, di dover governare un Paese con 17 Governatori contro su 20, farebbe tremare i polsi a chiunque. Ecco perché la stella polare per capire cosa succederà resta l'equazione onesta - del ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà: «A parte la Val d'Aosta aveva spiegato settimane fa se si pareggia tre a tre (cioè al Pd vanno Campania, Puglia e Toscana) si va avanti tranquilli; se finisce 4 a 2 (cioè il centrodestra conquista la Puglia) è un problema; se si perde anche in Toscana il problema si fa grave».

Ineccepibile. E visto che a sentire l'aria che tira, tutto è possibile, dalla parte della maggioranza la paura fa 90. Tant'è che Giggino Di Maio, in ossequio alla furbizia del suo concittadino Pulcinella, parla solo di referendum sul taglio dei parlamentari, rimuovendo del tutto l'appuntamento delle regionali. Il suo schema, ripetuto ai fedelissimi, è semplice: «Se si perde nelle regionali la sconfitta investirà solo Zingaretti. Io al contrario potrò rivendicare la vittoria, estremamente probabile, dei Si al referendum. Poi vediamo cosa succederà: io sono sicuro che il governo supererà indenne questa prova, altrimenti si apriranno i giochi e la nostra strategia sarà quella di evitare le elezioni ad ogni costo».

Così anche se la narrazione «made in» Casalino (il portavoce del premier) impone la «vulgata» che non esiste alternativa a Conte, sotto la superficie della politica nostrana le tensioni non mancano. Tensioni generiche a cui, però, una sconfitta elettorale potrebbe dare una forma. La fotografia è nella confidenza a cui si è lasciato andare Matteo Renzi con un amico: «Tutti mi chiedono di far la crisi, ma nessuno si fida di come la voglio fare io».

Sarà, quindi, il risultato a decidere se resterà tutto immobile, se si celebrerà la vecchia liturgia del «rimpasto» in voga dai tempi di Nerone, o, ancora, se il premier avrà un futuro. Tutto è possibile, nulla è scontato. Restano i dilemmi di casa Pd: è possibile affrontare la sfida del Recovery fund intrappolati nella cultura (o meglio, subcultura) di governo grillina? E ancora: dopo un'eventuale sconfitta elettorale l'obiettivo di eleggere un capo dello Stato in salsa giallorossa sarebbe ancora alla portata, o no? I dubbi non mancano. «Se finirà 5 a 2 spiega una vecchia volpe piddina come Umberto Del Basso De Caro si andrà avanti così. Conte non farà neppure il rimpasto perché i grillini che toglie dal governo il giorno dopo se li ritrova all'opposizione e con questi numeri è un problema. Eppoi c'è il rischio che quando arriveremo a eleggere il capo dello Stato, a un anno dalle elezioni e dopo una serie di sconfitte elettorali, tra i grillini c'è chi guarderà verso chi ha più consenso e il movimento diventerà un supermarket per gli acquisti del centrodestra. Per cui ci accorgeremo, mesti, che l'idea che saremo noi a decidere il nuovo presidente era solo un'illusione.

Per cui, certo, dopo il 21 settembre Conte andrà avanti, ma non so quanto convenga al Pd».

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