Sanguinari e senza scrupoli: è lontano il mito della filibusta

Sanguinari e senza scrupoli:  è lontano il mito della filibusta

Pirata. Parola breve con etimo antico: viene dal greco, dal verbo peiran che significa tentare, assaltare. Eppure in questo trisillabo, che più che altro dovrebbe destare sdegno e paura, è concentrato uno dei miti più duri a morire. Quello del capitano tenebroso che parte verso l’avventura, quello del grande veliero avvolto dal fumo acre del combattimento, il sogno di una fratellanza di libertà senza legge. Un’immagine, tutta di carta e pellicola, che viene declinata all’infinito. Si parte dai libri, basti pensare al Corsaro nero di salgariana memoria, per arrivare ai futuristici cartoni animati di Capitan Harlock o al successo cinematografico di Pirati dei Caraibi (non così diverso dall’orgia di pubblico che accolse Capitan Blood con Errol Flynn negli anni ’30).
Eppure ha pochissimo a che fare con la realtà. Anzi, forse piace proprio per questo. Il mito del pirata (che è cosa diversa dal corsaro) nasce a partire dall’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, pubblicato per la prima volta a puntate nella rivista per ragazzi Young Folks negli anni 1881-1882, con il titolo Sea Cook, or Treasure Island. A partire dal romanzo l’immaginario collettivo si riempì di bucanieri con il pappagallo sulla spalla, di mappe del tesoro, di malandrini storpi ma dotati di uno strano carisma.
Ma il romanzo di Stevenson, che è un romanzo di formazione, lascia attorno ai pirati un’aura molto ambigua, fosca e carica di sangue. Da lì a poco il pirata avrebbe cambiato forma, assumendo sempre più quella dell’eroe bello e fiero, alla Sandokan. E in questo il contributo di Emilio Salgari sarebbe stato fondamentale, con i suoi Sandokan, Janez, con le sue Jolanda e i suoi corsari Neri Verdi o Rossi. E non è un caso che sia stato proprio un altro italiano naturalizzato inglese, Rafael Sabatini, a proseguire nel genere e a inventare nel 1922 quel Capitan Blood che sarebbe diventato archetipo cinematografico destinato, con poche varianti, ad arrivare ai nostri giorni. Insomma l’idea di pirata buono ha iniziato a diffondersi quando, in fondo, i bucanieri veri avevano smesso di infestare i mari, schiacciati dalla forza delle marine da guerra delle grandi potenze.
Ora che la globalizzazione ci costringe di nuovo a fare i conti con predoni che sequestrano le navi e mettono a rischio di vita gli equipaggi, oppure creano un tale allarme da far pensare che le regate oceaniche debbano essere scortate dalle portaerei, questa immagine dorata fa a pugni con la realtà. Perché se, infatti, ci mettiamo a guardare alla pirateria con gli occhi della storia la realtà salta subito agli occhi. Basta leggere un grande classico come la Storia della pirateria di Philip Gosse (scritto nel ’32 è stato appena ripubblicato in Italia dal piccolo editore Odoya) per rendersi conto che i pirati sono sempre stati: sanguinari, senza scrupoli e feroci. Fatta qualche eccezione per alcuni corsari (ossia per coloro che assaltavano navi mercantili di una potenza nemica con l’autorizzazione scritta del proprio governo) i briganti del mare erano peggiori dei briganti di terra.
Giusto per fare qualche esempio: Edward Teach detto Barbanera (1680-1718) era noto per la sua abitudine di uccidere assai allegramente a pistolettate i membri del suo equipaggio; Francesco Nau detto l’Olonese (1634-1671) quando conquistò il porto di Maracaibo si mise con tutta calma a squartare sul cavalletto gli abitanti per farsi consegnare ogni oggetto di valore (non pare si preoccupasse di distinguere se i torturati erano uomini, donne o bambini). E tolti i grandi capitani, o i corsari del mediterraneo (che hanno prodotto molte meno leggende dei loro colleghi delle Antille) la pirateria è stata spesso praticata nelle stesse modalità in cui viene praticata adesso: barchini veloci che accostano navi più grandi. Niente gloriose lotte di velieri, dunque, molto più probabile essere sgozzati sottocosta.
Insomma quello che era un incubo che abbiamo trasformato in fiaba è tornato a rivelarci la sua natura. Se ne era accorto con un certo anticipo William Langewiesche, scrittore e firma di The Atlantic Monthly che nel 2004 ha pubblicato Terrore dal mare (in Italia per Adelphi).

Nel capitolo dedicato ai pirati così scrive: «I nuovi pirati sono ambiziosi e ben organizzati e non vanno confusi con lo sciame di precari del crimine che ronzano attorno ai porti...». Anche perché, è sempre una paura di Langewiesche, una nave da decine di migliaia di tonnellate carica di armi o petrolio non è solo una preda. È una potenziale gigantesca bomba per terroristi.

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