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"La scultura è figlia delle montagne"

A Venezia la mostra dell'artista uruguaiano che vive a Lecco: "Lavoro tutto con le mie mani"

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«Venezia è sempre Venezia». Lo scultore uruguaiano Pablo Atchugarry, nel suo italiano appena spruzzato di ispanico, ci parla al telefono da Calle Larga XXII marzo, a pochi passi da una Piazza San Marco segnata dall'overtoursim di una perenne altissima stagione. Settant'anni, nato a Montevideo e da tempo con casa e atelier a Lecco, Atchugarry è alla Galleria d'Arte Contini. Qui, fino al 24 novembre, è in mostra la sua personale The Time of Sculpture, una quarantina di opere di ieri e di oggi.

Soddisfatto?

«Come si fa a non esserlo? È una mostra molto completa dove sono esposti anche tre dipinti risalenti agli anni 1978-80, per testimoniare quel momento di transizione che mi ha condotto alla scelta definitiva della scultura».

A proposito di pittura: alla Biennale d'arte di Pedrosa se ne vede parecchia. Che ne pensa?

«Ho visitato con curiosità la Biennale. Ho trovato il padiglione centrale originale, perché è riuscito a dar voce ad artisti che fino ad oggi non avevano avuto la possibilità di accedere al circuito internazionale dell'arte e delle gallerie. Mi ha colpito trovare i dipinti di Linda Kohen, pittrice oggi centenaria, nata a Milano ed emigrata da ragazza in Uruguay. Il mio Paese è una piccola Italia».

È un bene?

«L'emigrazione lì risale alla metà dell'Ottocento, nel Dna abbiamo conservato i sani valori di un tempo. Penso alla storia della mia famiglia. Mia nonna patera era nata in provincia di Savona: suo padre era morto e la madre si ritrovò vedova con tre figlie. Prese mia nonna, la primogenita, che all'epoca aveva solo 11 anni, e partì con lei per l'Uruguay: la lasciò lì, ad assistere una persona malata. Mia nonna rimase da sola un anno, prima che la madre e le sorelle si trasferissero anche loro in quella parte di mondo. Credo che questa straordinaria forza d'animo sia intrinseca agli uruguaiani di oggi».

Lei ha viaggiato molto e poi si è stabilito a Lecco.

«Ci sono capitato per caso e non me ne sono più andato. La meraviglia delle sue montagne ruvide, a strapiombo sul lago, è stata congeniale alla mia arte. Dico sempre che i monti lecchesi sono le sculture di Dio. Dalle finestre di casa vedo il Medale, una parete rocciosa amatissima dagli scalatori: è la mia ispirazione quotidiana».

Perché ha scelto la scultura?

«La definirei una chiamata. Da sempre ho voluto confrontarmi con la materia e la grande dimensione: sono arrivato a lavorare pezzi unici enormi, il più grande superava gli 8 metri, per 56 tonnellate di marmo. Considero le mie opere un po' come i figli della montagna che ne se vanno in giro per il mondo».

Da Contini vedremo in mostra anche mini sculture-gioiello.

«Sono piccole sculture da indossare sopra la pelle e vicino al cuore: in oro 18 carati, sono un omaggio a mia figlia. È stato un esercizio interessante tradurre in forma portatile la monumentalità».

Tra le opere esposte in galleria, ci sono anche sculture di legno.

«Lavoro su piante che hanno perso la vita, con l'idea di offrirgliene una seconda attraverso l'arte. Quelli in mostra a Venezia sono ulivi che vengono dall'Uruguay: un modo per sottolineare che esiste una specie mediterranea che vive anche dall'altra parte dell'Atlantico. Scolpisco queste piante ribaltandole, ponendo in alto le radici: metaforicamente, le metto a nudo, libere di raccontarci qualcosa della loro esistenza».

Che cosa rappresenta per lei la scultura?

«Una grazia ricevuta. Se hai questa capacità, non devi risparmiarti. Io lavoro ancora con le mie mani.

Ho degli assistenti per le lucidature, ma tutto il resto lo faccio da solo. Scolpire richiede forza fisica e mentale: nella scultura ogni pezzetto tolto lo è per sempre. Per questo penso che scolpire sia una filosofia di vita: significa avvertire la responsabilità delle proprie scelte».

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