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"Ecco come ho trattato Riina. La mia verità sull'antimafia"

Il colonnello Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, si racconta in un'intervista alla nostra redazione: "Sognavo sin da piccolo di fare il carabiniere e l'ho fatto"

"Ecco come ho trattato Riina. La mia verità sull'antimafia"

Eroe antimafia, Robin Hood dei "deboli" ma soprattutto "Servitore del popolo". Il colonnello Sergio De Caprio non è solo un militare di lungo e glorioso servizio ma il Capitano Ultimo. Passato agli onori delle cronache per aver arrestato il boss di Cosa nostra Totò Riina (15 gennaio del 1993), l'ex comandante dei Ros vanta il merito di aver fondato i Crimor (Unità Militari Combattente) e di aver speso un'intera esistenza combattendo le ingiustizie. "Essere combattente vuol dire considerare, su tutto, il valore e l'importanza dell'azione rispetto alla celebrazione. È una scelta chiara e nitida, dove non sono ammesse falsità. Un combattente non mente mai", spiega a ilGiornale.it.

Una vita vissuta sotto scorta, nel mirino delle mafie da sempre: "Con la paura ci vivo da quando ero piccolo, ho imparato a conoscerla, ci ho fatto amicizia e ora sono felice di averla sempre accanto a me. Mi dà consigli su come muovermi", racconta alla nostra redazione.

Capitano Ultimo, lei nasce come Sergio De Caprio. Cosa sognava da piccolo?

"Sognavo di fare il carabiniere dei poveri. Intendo dire il carabiniere che difende i più fragili, che impedisce l'abuso e la violenza sugli altri. E questo l'ho visto fare ai carabinieri di basso grado, che operano in piccoli paesi. Questo era il mio sogno, ci sono riuscito. E sono felice di averlo fatto".

Quando e perché decide di chiamarsi Ultimo?

"Mi chiamo Utimo perché nel momento in cui venni trasferito alla Sezione Anticrimine di Milano, cioè i reparti che ora si chiamano Ros e che sono stati costituiti dal generale Dalla Chiesa, era obbligatorio avere un nome di battaglia. Era una difesa da possibili intercettazioni delle comunicazioni radio e quindi un modo per nascondere la propria identità. Quando fu il mio momento scelsi Ultimo perché ho vissuto in un mondo fatto di 'primi'. E questi meccanismi di voler essere il più bello, il più intelligente e il più visibile di tutti – meccanismi che c'erano anche nel corpo dei carabinieri, purtroppo – a me non piacevano. Dunque scelsi di chiamarmi con questo nome, così loro (i primi) erano felici e io non avevo competitori. Tutti scoppiarono a ridere quando lo dissi, ora non ridono più. Non contano gli abiti o i nomi delle persone, sono le azioni che danno la misura della grandezza o piccolezza di qualcuno".

Perché si copre il volto con una bandana?

"Mi copro il volto perché sono costretto, non ho altre alternative. È la mia difesa, significa scomparire, non essere niente, diventare l'incubo del nemico e rendere difficile la certezza dell'individuazione a chi vuole colpire. Queste cose ce le ha insegnate il generale Dalla Chiesa e sono fiero di averlo fatto seguendo i suoi insegnamenti".

Quando è stata la prima volta che ha arrestato un malvivente?

"Il primo arresto l'ho fatto insieme al mio babbo, da sottotenente. Il mio papà era un maresciallo comandante della stazione dei carabinieri. Un giorno, mentre stavamo camminando, abbiamo beccato un ladro che rubava benzina da una macchina. E quello è stato il mio primo arresto, il più importante di tutti perché ero insieme al mio babbo e non c'è niente che regga il paragone. Ricordo ancora tutto chiaramente, anche le sensazioni che ho provato. L'abbiamo portato in carcere con la nostra macchina privata, perché noi abbiamo sempre trattato con rispetto anche i criminali. Io sono nato da questi episodi marginali, quelli che però raccolgono i valori più grandi e importanti di tutta la mia storia da combattente".

All'inizio degli anni '90 fonda i Crimor (Unità Militari Combattenti). Quella di diventare un "Militare Combattente" è stata una scelta o una vocazione?

"È una scelta e, al contempo, una vocazione. I combattenti non sono solo nei militari. Li riconosci dagli occhi, dal modo in cui affrontano la vita, le missioni e gli incarichi. Il combattente lo riconosci dal modo in cui raggiunge gli obiettivi che il lavoro o la vita gli assegna. Essere combattente vuol dire considerare, su tutto, il valore e l'importanza dell'azione rispetto alla celebrazione. È una scelta chiara e nitida, dove non sono ammesse falsità. Un combattente non mente mai".

Il 15 gennaio 1993 arresta Totò Riina. Ci racconta come è riuscito a stanarlo?

"Sono arrivato all'arresto di Riina attraverso un lavoro svolto dalla mia unità militare, dal gruppo di carabinieri con cui abbiamo svolto una ricerca informativa nascosta a Palermo. Abbiamo seguito la famiglia Ganci, del quartiere Noce di Palermo, e recepito le dichiarazioni del pentito Balduccio Di Maggio. Così siamo riusciti a metterci sulle tracce di Riina e a catturarlo".

Cosa ha provato quando gli ha messo le manette ai polsi?

"Abbiamo catturato Riina allo stesso modo in cui abbiamo preso anche altri latitanti prima e dopo di lui, cioè, seguendo la tecnica del generale Dalla Chiesa. E quando lo abbiamo arrestato ho provato la stessa cosa che si prova quando si cattura chiunque altro. È stata una enorme soddisfazione, sia perché avevamo centrato l'obiettivo sia perché tutti i carabinieri che avevano collaborato all'azione potevano tornare sani e salvi alle loro case, nessun civile si era fatto male".

Com'è stato guardarlo dritto negli occhi?

"Considerando il prigioniero un perdente, uno che è stato sconfitto, l'ho trattato con il rispetto che si deve a chi ha perso".

Dopo l'arresto di Riina arriva l'accusa più infamante: quella di favoreggiamento a Cosa Nostra insieme al generale dei Ros Mario Mori. Come si è sentito?

"Ho capito che nelle battaglie c'è chi combatte a viso aperto e chi, invece, combatte alle spalle, in maniera vile. Ho combattuto anche questo attacco vile in maniera adeguata, cioè, nell'unico posto possibile: davanti ai giudici. Ho vinto questa battaglia e sono fiero di averlo fatto insieme al generale Mori. Provo massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di colpirci alle spalle".

Lei ha vissuto, e vive ancora, sotto scorta. Ci spiega cosa vuol dire doversi guardare le spalle per una vita intera?

"In realtà, quando sono stato in reparti combattenti, la scorta ce la facevamo reciprocamente io e i carabinieri che erano con me. L'associazione Cosa Nostra, la mafia siciliana, aveva stabilito di uccidermi e quindi aveva lanciato questo conto aperto. Non abbiamo chiesto nulla e in autotutela ci siamo guardati le spalle a vicenda. Il problema si è posto nel momento in cui mi è stata tolta la possibilità di svolgere qualsiasi attività di combattimento. Mi sono ritrovato negli uffici con due/tre collaboratori a svolgere le attività per il glorioso, disciolto, corpo della Forestale – e aggiungo, ingiustamente disciolto – e a quel punto la scorta è diventata una necessità per fornire sicurezza a me e alla mia famiglia soprattuto".

Nel 2019 le hanno revocato la scorta. Secondo lei, chi lo ha deciso e perché?

"Il problema non è nascondersi ma essere in grado di verificare se sei sotto osservazione da parte di qualcuno. Per gli uffici del comandante generale Nistri non c'era nessun pericolo. Ma secondo me, e secondo il buon senso, ci sono molti pericoli. Quindi ho fatto ricorso al Tar per far valere le mie ragioni. Il Tar mi ha dato ragione e ora ho una scorta che mi è consentita – ribadisco, solo grazie al Tar - contro il volere sia del Ministero degli Interni che del Comando generale dell'Arma dei Carabinieri".

Ha mai avuto paura?

"La paura è tutto. Senza paura saremmo solo degli insensibili e scellerati. La paurà dà consapevolezza e lucidità alle persone, dà coraggio. Con la paura ci vivo da quando ero piccolo, ho imparato a conoscerla, ci ho fatto amicizia e ora sono felice di averla sempre accanto a me. Mi dà consigli su come muovermi".

Cos'è la "Karriera", quella che lei ha sempre rifiutato?

"È il successo conseguito sulla pelle degli altri, disprezzando gli altri e non avendo rispetto della dignità altrui. È qualcosa di molto spregevole, qualcosa che io non avrei mai potuto fare e non ho fatto".

Cosa ne pensa dell'attuale gestione Antimafia?

"Vorrei solo che chi ha l'autorità e la responsabilità di fare la lotta antimafia spiegasse quali sono gli obiettivi e le modalità con cui intende raggiungerli. E ne rispondesse poi al popolo. Tutto il resto sono solo chiacchere e celebrazione del nulla".

Nel 2020, Iole Santelli l'ha nominato assessore all'Ambiente della la Regione Calabria. Come mai ha accettato l'incarico e com'è stato lavorare con la governatrice?

"Io sono fiero ed è stato per me un grandissimo onore servire il popolo della Calabria. L'ho fatto proprio perché me lo ha chiesto Iole Santelli, al di fuori di ogni logica di partito. Gli ho dato la mia collaborazione totale, a lei e a tutto il popolo calabrese. Sono fiero di essermi donato con tutte le forze che avevo, con tutta l'intensità che mi ha dato il mio cuore. È stata ed è un'esperienza bellissima. Credo che la Calabria meriti di essere aiutata e valorizzata, non denigrata, offesa e sfruttata come accade".

Come pensa sia stata gestita sinora l'emergenza sanitaria?

"Penso che bisogna dialogare con le persone, chieder loro di cosa hanno bisogno e poi aiutarle facendo fede alle loro richieste. Al di fuori di questa logica c'è solo autoritarismo, dominio e commissariamenti. Bisogna praticare mutuo soccorso anche a livello istituzionale altrimenti diventa solo propaganda politica. E a me fa schifo".

Cosa suggerirebbe a un ragazzo giovane che vuole entrare nell'Arma?

"Non gli darei nessun suggerimento. La cosa più importante è donarsi per gli altri senza volere nulla in cambio. Ogni volta che un ragazzo fa questo, qualunque sia l'incarico e l'abito che indossa, per me è un combattente".

Quando toglie la divisa di Capitano Ultimo, chi è?

"Ultimo è un combattente, un ragazzo di 15 anni che vuole la battaglia e viene dal nulla. Fa la battaglia insieme a ragazzi umili e semplici come lui. Dopodiché, finita la battaglia, svanisce e torna ad ssere il nulla da cui fieramente è venuto.

Tutto qua".

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