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Ecco la "versione di Giorgia": le verità sul palazzo, i media e la vita

Europa, immigrati, famiglia, tasse: in un libro-intervista che esce oggi la premier racconta per la prima volta la sua idea di Paese

Ecco la "versione di Giorgia": le verità sul palazzo, i media e la vita Esclusiva

Arriva oggi in libreria «La versione di Giorgia» (Rizzoli, pagg. 272, euro 18), il libro-intervista alla premier Meloni firmato dal direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti. Poche settimane dopo l'incarico di governo, durante un veloce scambio di auguri, Alessandro Sallusti si lascia scappare una battuta. Nasce così l'idea di questa conversazione in cui la premier rivela la sua visione della vita e del mondo. Un racconto in cui fa i conti con le sfide del presente - dalla guerra in Ucraina alla crisi energetica, dalla transizione ecologica all'inflazione - e con quelle del futuro: la responsabilità, lo spirito d'iniziativa, gli investimenti per favorire la crescita e ridurre il debito, un'Europa protagonista, un «Piano Mattei» in grado di portare sviluppo in Africa. «È fondamentale» dice Meloni a Sallusti «che gli italiani vedano un governo che, per carità, ha i suoi limiti e difficoltà, magari fa perfino degli errori. Ma ce la mette tutta, in buona fede, con umiltà e amore». Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo la prefazione.

La incontro e le dico: «Peccato che un presidente del Consiglio in carica non possa pensare di scrivere un libro per raccontare i suoi progetti». E lei: «E perché non può farlo?». Io, preso in contropiede, la butto lì: «Non lo so esattamente, ma ci sarà un motivo se nessuno l'ha mai fatto». Lei: «Dovresti sapere che fare quello che hanno fatto tutti gli altri non è esattamente la mia specialità».

Palazzo Chigi, tardo pomeriggio di un giorno della settimana che precede il Natale. Giorgia Meloni mi riceve per un veloce scambio di auguri. Non la vedevo né sentivo da mesi, esattamente dal dicembre dell'anno prima, quando avevo moderato un suo dibattito alla festa di Atreju, la kermesse diventata nel tempo un appuntamento clou per la politica italiana, non solo quella di destra. Poi qualche messaggino durante la breve e intensa campagna elettorale, nulla di strettamente politico, nessuna notizia riservata, solo qualche pensiero che ci frullava per la testa e che chissà per quale motivo ci andava di condividere. Per la verità l'avevo rivista sì, ma da lontano, lei sul palco e io in platea, alla conferenza programmatica di Fratelli d'Italia organizzata ad aprile a Milano, appuntamento che segnò il via ufficiale alla scalata finale. In effetti in quel salone del MiCo, il centro congressi di Milano, si respirava un'aria fresca, ricordo di essere tornato in redazione in tempo per impostare la prima pagina e di aver detto ai miei colleghi: «Non so cosa ne pensate voi, per me questi non li ferma più nessuno», anche se in quel momento non potevo immaginare né distanza né velocità di quella traiettoria.

Ma torniamo a quel pomeriggio, vigilia di Natale. Giorgia Meloni, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è febbricitante come milioni di italiani, cosa che lei, a differenza dei più, non potendosi fermare neppure un minuto, si trascinerà per mesi nonostante gli antibiotici e complice qualche sigaretta di troppo: «Che ne dici di un bel tè caldo?» mi fa mentre, dopo essersi sfilata le scarpe, si accovaccia sul divano a tre piazze del salottino del suo studio privato. Provo piacere, io che penso sempre di disturbare e che con i potenti non mi trovo mai a mio agio al punto da tenermi il più lontano possibile dai palazzi di Roma, che prenda questo appuntamento come pretesto per una pausa personale in un'agenda fitta di incontri ben più importanti e impegnativi. Mi racconta di aver fatto riverniciare le pareti di quella stanza di grigio perla, perché la tappezzeria damascata color oro che c'era prima non si addice alla sobrietà del tempo, e all'immagine che le istituzioni devono dare a chi le frequenta. E che Mario Draghi, come ultimo consiglio prima di uscire definitivamente da quel palazzo, le aveva raccomandato, con un tocco della sua celebre ironia, di tenere le finestre che danno sul trafficato incrocio di largo Chigi sempre chiuse, «perché qui con lo smog che c'è rischi un enfisema in pochi mesi». Mi confessa di soffrire un po' in quel palazzo molto più cupo di quanto ci si immagini, che una volta era la residenza dei Chigi, influente famiglia di banchieri senesi. «Non mi capacito di come qualcuno abbia potuto vivere in un ambiente così freddo» scherza, ma poi anche questo diventa oggetto di una riflessione più seria. «A Palazzo Chigi si respira meno solennità di quanto si possa respirare a Palazzo Montecitorio, o a Palazzo Madama, per non parlare del Quirinale. E a pensarci bene, ha un senso. Qui sono sempre stati tutti di passaggio, e nel nostro ordinamento il vero potere è sempre stato altrove. In pratica è come se queste stesse mura volessero dirti ricordati che conti poco e durerai ancora meno.» E mentre lo dice, il suo volto è rivolto alla grande volta affrescata del suo ufficio, la famosa Galleria Deti, e l'aria è quella di una sfida.

Poi tra di noi il discorso va inevitabilmente sul sistema dell'informazione che, si sa, con questa presidente del Consiglio non è benevolo come lo è stato con altri in passato. La diverte, dice, il quotidiano, affannoso, tentativo di certa stampa che l'aveva dipinta come portatrice di una presunta catastrofe se fosse mai arrivata a guidare il governo di dipingerla oggi come una Giorgia Meloni diversa da quella che stava all'opposizione, per non dover ammettere di aver fatto, in passato, propaganda contro di lei, più che informazione sul suo operato e le sue idee. «Per non dire che loro non ci avevano capito molto, o che avevano fatto inutile terrorismo psicologico per spaventare i cittadini, dicono che sono io a essere diversa. Ma poi si incartano e, sullo stesso quotidiano, un giorno ti definiscono draghiana e quello dopo mussoliniana. È molto divertente. Quello che non hanno capito è che io sarò sempre e solo me stessa. Non ho mai scimmiottato un altro modello, né presente né passato. Faccio quello che considero giusto e basta. Ancora più divertente è leggere quelli che, detestandoti palesemente, ti danno ogni giorno consigli su quello che dovresti fare, su chi dovresti essere, su cosa dovresti dire, perfino sulle persone delle quali dovresti avvalerti. Per carità, è anche utile, perché ti offrono inconsapevolmente una bussola su ciò che non devi fare, dire ed essere, e pure su quelli che non devi frequentare. Ma racconta anche la spocchia di una sinistra, e di un certo Deep State a essa collegato, che mentre non riesce a ricostruire una sua identità pretende di spiegare alla destra la sua.»

È questa riflessione che mi fa venire in mente quella frase su un possibile libro-verità, qualche cosa che rimetta anche solo le cose in ordine, al loro posto, con la solidità che non un articolo ma solo un libro può garantire: «Peccato che un presidente del Consiglio». E in quel momento l'ho imparato: mai provocare, nel bene o nel male, Giorgia Meloni. Detto e fatto, come è nel suo stile sbrigativo e decisionista. Sono seguiti una serie di incontri in coda a giornate intense fatte di appuntamenti di Stato, vertici di governo e riunioni di Gabinetto, addirittura di missioni all'estero, come quella sera che ancora non aveva disfatto la borsa di ritorno dalla visita a Kiev e dall'incontro con il presidente ucraino Zelensky.

I commessi e gli addetti alla sicurezza che presidiano in forze i corridoi di Palazzo Chigi mi danno l'idea di non capacitarsi di una tale frequenza di visite di una stessa persona estranea allo staff e ai funzionari. Per salire da lei, dopo i controlli di rito, si attraversa il cortile d'onore che visto così in giorni normali, pieno di auto parcheggiate in qualche modo, ha poco a che fare con le immagini solenni che gli italiani sono abituati a vedere in TV nei TG della sera all'arrivo di ospiti importanti, di solito pari grado esteri del padrone di casa, accolti con tappeto rosso, picchetti e bande. Sotto un androne c'è un ascensore con le pareti di legno tirate a lucido stile metà secolo scorso, sovrastato da una gigantesca targa in marmo che ricorda Francesco Crispi «ultimo eroe del Risorgimento primo nella grandezza», datata 1924. Sali e attraversi ben cinque saloni diversi più o meno grandi ma comunque tutti grandi le cui pareti sono tappezzate di enormi quadri e arazzi. Incutono un filo di angoscia questi saloni deserti che mi dicono animarsi solo durante le visite di Stato o le sedute dei Consigli dei ministri, la cui famosa sala riunione con tavolo circolare è proprio lì a fianco, sullo stesso piano.

Poi arrivi allo studio del presidente, che non è ovale come quello più famoso del mondo a Washington DC, ma rettangolare, non particolarmente grande e più austero di quanto ci si possa aspettare: entrando, sulla sinistra, c'è la scrivania sul lato lungo della parete, di fronte alla finestra, zeppa di penne di tutti i tipi e colori, una delle sue passioni sfociate in mania, i suoi amici dicono addirittura ossessione. In fondo, lato corto, un piccolo salotto, un divano e due poltrone foderate di tela bianca. È lì che per lo più ci siamo accomodati intere serate, a volte fino a notte fonda: io registratore e taccuino, lei a raccontare, tema dopo tema, le sue idee autentiche, le sue visioni, i suoi progetti e le sue speranze.

In Io sono Giorgia, il libro autobiografico record di vendite edito nell'estate del 2021, l'allora leader del principale partito di opposizione ha raccontato la sua vita, da bambina testarda e sognatrice a donna leader in rampa di lancio con il countdown in corso. Oggi che quel razzo è partito e con sorpresa arrivato preciso a destinazione, per sua volontà quel racconto continua proiettato sul futuro in modo semplice e informale, quasi confidenziale nonostante il ruolo e lo status. Ma determinato, come del resto è lo stile della casa.

Così, tanto per fare chiarezza.

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