Letteratura

Il paradosso del mito del progresso? Ci ha resi incapaci di pensare al futuro

Magnoli Bocchi indaga il senso di impotenza che attanaglia l'Occidente

Il paradosso del mito del progresso? Ci ha resi incapaci di pensare al futuro

Ne Il mito del progresso (Carocci, pagg. 200, euro 22) Giovanni Battista Magnoli Bocchi compie un viaggio nel senso di impotenza e inutilità di questa vocazione ossessiva e lo inaugura con una operazione maieutica di cui ne svela subito gli approdi. Descrive infatti la prima lezione di ogni anno accademico in cui ripercorre la biografia di Alessandro Magno il quale, poco più che ventenne, pur agitandosi fra tormento, incoscienza e ribellione, sfida l'ignoto e si muove con un esercito alla conquista dell'Asia. Infine, rivolgendosi a uno dei suoi studenti, conclude con la medesima domanda: «E tu che progetti hai?».

Da quando Prometeo donò il fuoco, gli uomini si sono sempre mossi fra parole d'ordine e adorazione fanatica del futuro trasformando a poco a poco la forza attrattiva di questo modello in una omologante sintassi planetaria. Ma l'utopia dell'avvenire, partendo da un fondo di realtà e di radicamento, arricchiva e non ingarbugliava i singoli avanzamenti, perché sempre stretti nell'antico legame tra memoria storica e futuro. Odisseo, per esempio, l'eroe che più di tutti volge lo sguardo al futuro, pur bramando la scoperta e il superamento di ogni limite, è avvinto dal desiderio del ritorno a Itaca. Non siamo di certo alla fine degli accadimenti, ma qualche ingranaggio della trionfante narrazione pare essersi inceppato e Bocchi conduce l'interlocutore verso questa verità. Le grandi scoperte, la gestione dell'energia naturale, la contrazione dello spazio e del tempo connessa allo sviluppo delle reti informatiche e la planetarizzazione dell'economia segnalano traguardi collettivi che hanno mutato in meglio il nostro vivere, soprattutto quando queste forme di avanzamento sono diventate generali e distributive e hanno sollecitato un'armonizzazione egualitaria sul fronte sociale.

Ma la condizione straniante di una hybris che assume prerogative divine, che pone gli umani di fronte all'idea di un progresso infinito, ha fatto dimenticare che esistono dei costi e pure degli imprevisti. E così è in crisi l'idea stessa di progresso. In crisi perché contaminata da un astratto giudizio di valore positivo che abbiamo visto sgretolarsi quando sono spuntate emergenze dal nulla (quella pandemica, le crisi finanziarie e la guerra su suolo europeo). Nell'indefinibile ma inebriante spazio postumo del futuro esse hanno evidenziato non solo un senso di impotenza ma la messa in crisi dei processi democratici, di talune sicurezze e libertà individuali. Peraltro, se il futuro viene solo avvertito come fonte di opportunità efficaci e produttive, cresce l'aspettativa, e nel momento in cui queste situazioni inaspettate rallentano la corsa prospera un fattore ansiogeno.

Per rappresentare l'ingovernabile Jünger utilizzerà l'allegoria del Titanic dove «l'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l'automatismo con la catastrofe». Ancor prima, nel 1818, il manifesto dolente del Frankenstein di Mary Shelley e poi, le denunce profetiche arrivate nei decenni successivi fino alla distinzione pasoliniana tra sviluppo e progresso perché la discrepanza tra ciò che è miglioramento misurato attraverso una sedimentazione nel tempo e ciò che invece rovina nella teleologia, ha radici profonde e antiche. Ce lo ricorda Berdjaev: non abbandonando mai la dimensione mitica e simbolica, l'adorazione fanatica del futuro diventa religione, una sorta di teoria darwiniana dello sviluppo.

Ciò accade perché la grande e inebriante stagione del progresso si trova di fronte ad un cambio radicale di prospettiva dove la storia non è più magistra vitae, il passato rischia di divenire sempre meno rilevante e, come scrive Hans Jonas, tutto inizia a ruotare intorno «ad una forza senza precedenti e ad un impulso incessante» provocati dal binomio scienza-economia che non di rado «crea disequilibrio e insicurezze». Non è un cambio di prospettiva recente. Reinhart Koselleck colloca questo crinale fra il 1750 e il 1850. Altri, al tempo della rivoluzione scientifica. Taluni, al fermento sociale e politico di fine ottocento, ai nuovi modi di pensare con la psicoanalisi e alla teoria della relatività dove il futuro viene proiettato in una straordinaria dimensione e l'escatologia rivoluzionaria riscrive l'antico rapporto di temporalità.

Bocchi rimarca il definitivo screditamento di questo rapporto e lo pone al centro dell'equivoco della modernità perché senza Filippo non ci sarebbe stato Alessandro Magno, e senza ciò che è stato non sarebbe stata possibile la storia successiva.

Ma per tirarci fuori dal ripiegamento della storia e dalle reiterate citazioni sul tramonto dell'occidente e la morte di Dio, bisogna elaborare il lutto del «mito del progresso».

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