Controcultura

Quel Passo della Morte verso una nuova vita

Dove oggi s'inerpicano i clandestini africani transitarono gli ebrei dopo le leggi razziali

Claudia Claudiano

«Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzitutto tener conto di com'era situata casa nostra, nella regione un tempo detta punta di Francia (...) come a frontiera tra due continenti». Al netto della poetica ironia con cui Italo Calvino riflette sulla sua adolescenza a Villa Meridiana di Sanremo nella Strada di San Giovanni, è un fatto che questo estremo lembo d'Italia abbia incanalato spesso le folate della storia, divenendone un punto d'osservazione privilegiato.

Un pugno di chilometri a ovest, le «fauci» rocciose che scendono in corsa nella valle del fiume Roja - come descritte da Jacopo Ortis nella lettera da Ventimiglia - riacquistano nell'immaginario tutta la minacciosa valenza della pagina letteraria, se si considera la folla di umanità smarrita su cui incombono. È straniante per gli italiani di frontiera questo ping pong di esuli rimpallati per dare via al gioco dell'oca del ritorno in sud Italia e poi ancora a Ventimiglia. Questa Francia che nega la protezione internazionale ai minorenni, con un prefetto delle Alpi Marittime condannato tre volte dopo le denunce delle organizzazioni umanitarie. I cartelli apparsi all'imbocco delle autostrade di Ventimiglia e Mentone: «Attenzione pedoni». Come cervi in montagna, come cinghiali nell'entroterra.

Il Passo della Morte è la deviazione assassina di uno dei sentieri più battuti dalla migrazione clandestina del '900 - nel XIX secolo non occorreva il passaporto alla frontiera - tornato a essere praticato dai migranti e per questo ripulito ed evidenziato da scout e volontari. Si passa intorno alla Giralda, una torre rocciosa a picco sul mare che segna l'arrivo in Francia e si parte soprattutto di notte, quando le luci di Mentone e del Principato ti richiamano a sinistra, verso il dirupo, dove in alcuni punti si può appoggiare un solo piede. Più di cento morti dal dopoguerra in quello che in gergo locale è il passo d'a trumba, la tromba ovvero il vuoto per sessanta metri. Di qui passò probabilmente anche Curzio Malaparte, all'epoca della Grande guerra ancora Kurt Suckert, di sedici anni, in fuga dal collegio, a piedi, per raggiungere la legione garibaldina. E gli ebrei tedeschi e austriaci dopo le leggi razziali. E curdi, arabi e «negri» scriveva Francesco Biamonti, totalmente dalla parte della loro disperazione. Lo storico Enzo Barnabà ci ha intitolato un libro, Il passo della morte (Infinito, in coedizione con Philobiblon, casa editrice di Ventimiglia) di duplice interesse. Logistico - l'autore abita a Grimaldi, frazione di Ventimiglia, e i clandestini in transito gli passano sotto casa. E della cultura storica e politica, senza cui non può esserci soluzione autorevole. La politica della pietà dei No borders, stanziatisi sotto i riflettori del mondo nell'estate del 2015 presso gli scogli della frontiera, non si è mai interrogata sul «poi» di un'accoglienza senza limiti. Né sulla legalità che occorre rispettare per aderire a una nuova comunità, confusa con un generico senso di repressione poliziesca.

E poi c'è il grande inganno della colonizzazione dell'immaginario, il french dream coltivato nelle scuole delle ex colonie francesi. La pressione mediatica, radio, televisione, internet, che ha creato il paradiso artificiale dell'Occidente. Barnabà era negli anni '90 ad Abidjan in Costa d'Avorio, docente all'università e addetto culturale all'ambasciata. Ha il mal d'Africa, ma sa che la paura dell'altro non è un'esclusiva dell'uomo bianco. In quegli anni in Liberia la guerra civile portò molti disperati a imbarcarsi nel porto di Monrovia, la capitale, verso la Costa d'Avorio cui chiedere accoglienza come profughi: gli ivoriani fecero muro e i porti restarono chiusi. I giovani africani con cui l'autore parla sanno cosa è l'Africa e i suoi governi. Ma è doloroso rinnegare il sogno francese: difendono a oltranza i gendarmi che li respingono, la colpa è di una lingua incerta con cui non sanno spiegarsi. Nel film Libero di Michel Toesca un giovane di colore spiega concitato che i francesi chiudono le frontiere perché temono il terrorismo. Ma che un francese non lascia mai indietro un uomo che soffre: anche lo sciovinismo dei giornalisti d'Oltralpe si arrende. Mentre la figura del passeur a cui la penna preveggente di Biamonti ha dato per prima un'identità letteraria, risulta geneticamente mutata: uomini con la pelle dello stesso colore rompono gli arti a chi non paga la parcella dopo il transito. E nei treni costringono i «clienti» nei vani del quadro elettrico o nei doppifondi dei vagoni.

Avevamo imparato a rapportarci alla Francia, con il trattato di Schengen e la moneta unica, in un modo ottocentesco e proiettato verso il futuro al tempo stesso. Non abbiamo vissuto lo choc immigratorio degli anni '50 dal nostro sud, ma all'epoca si trattava di costruire la Francia con le mani, i lussi di Montecarlo come bestie. Il cammino della speranza del 1950 è un film di Pietro Germi con Raf Vallone sul transito dei minatori di Sicilia lungo il Passo, verso le miniere francesi. «Un paesaggio scosceso, senza pace, posseduto dal mare» scriveva Biamonti.

E vale anche per le domande che qui ci si pone sulle possibili evoluzioni della storia la definizione di «conversazione sospesa sull'abisso».

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