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Le amnesie della gauche: quante sentenze demolite

Da Moro a Calabresi hanno sempre criticato le verità giudiziarie che a loro non piacevano

Le amnesie della gauche: quante sentenze demolite

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Parole come piombo. Lo sfogo di Marcello De Angelis sulla strage di Bologna affonda come una lama in una ferita aperta: «So per certo che con la strage di Bologna non c'entrano nulla Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e cariche istituzionali».

Se la verità giudiziaria traballa come una sedia rotta, quella giornalistica è intrisa di ideologia. Da Piazza Fontana all'omicidio del commissario Luigi Calabresi si agita lo spettro del depistaggio, comodo alibi di una magistratura perennemente incapace di riempire di sostanza gli stagni dove la Storia annega nel perdonismo di parte, mentre qualcuno cerca invano di pacificare un Paese con la memoria manipolata. Sulla condanna dei tre estremisti neri ci sono davvero ragionevoli dubbi che pesano come macigni? Di chi sono le spoglie attribuite erroneamente a Maria Fresu, una delle 85 vittime, il cui corpo è praticamente scomparso? C'entra qualcosa con la famosa pista mediorientale? Chi si accontenta di dare la colpa alla destra ha paura di vedersi sgretolare una suggestione di comodo? Chi oggi crocifigge De Angelis ha forse paura della sua chiamata in correità? Se è necessaria un'operazione verità, a chiederla dovrebbero essere tutti. Chi sa e non ha ancora parlato, che cosa aspetta?

Se una sentenza contiene i germi che ne divorano la credibilità, perché tacere? Persino Oscar Luigi Scalfaro nel 1998, dallo scranno del Quirinale, sollevò qualche dubbio sull'omicidio di Aldo Moro nel ventennale della morte dello statista Dc: «Le intelligenze criminose dietro quei brigatisti colonnelli dell'anti-Stato che scelsero, mirarono e centrarono il bersaglio, in quel momento politico essenziale, sono comprese in quei processi?», disse.

È successa la stessa cosa con l'omicidio del commissario Calabresi, vittima di una delle tante fake news che hanno avvelenato la Prima repubblica, la sua responsabilità dietro la tragica morte dell'anarchico Pietro Pinelli, che la meglio gioventù di allora si bevve senza fiatare. Contro le otto sentenze girevoli si sono accaniti i compagni di strada di Lotta continua (ma non solo) di Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Adriano Sofri, a cui va riconosciuta la dignità di aver espiato la pena e la generosità nel voler rivendicare comunque una sua responsabilità in quella tragica morte. Nessuno dimentica le critiche violentissime di ministri e parlamentari in carica, di destra e di sinistra, accordate coi proclami indignati dei soliti intellettuali à la carte che allora non risparmiarono nessuno: né il pentito Leonardo Marino, né i testimoni, né magistrati né i giudici. Stesso grido di De Angelis, «tutti sanno». Eppure nessuno s'impuntò, invocando le dimissioni di chi osava contestare una sentenza in nome del popolo italiano, riconoscendo a quella battaglia lo stigma di una sorta di lealtà, di un tributo alla memoria.

Non si può criticare la condanna per la strage di Bologna ma c'è una sinistra che ancora festeggia la mancata estradizione dalla Francia dei dieci terroristi, dopo averne chiesto (invano) indulti e amnistie, alla faccia del dolore di chi ha perso un padre o un fratello per una divisa, qualche spicciolo o financo un'idea in un tema, come se esistesse un terrorismo giusto e uno sbagliato. C'è una magistratura buonista arrivata a risparmiare alle Nuove Br la finalità terroristiche, ci sono accuse scritte col sangue delle stragi di mafia che sono state cancellate dalle sentenze. Massimo D'Alema restò «allibito e sconcertato» per l'annullamento della condanna a 24 anni per il delitto di Mino Pecorelli a carico di Giulio Andreotti, successivamente assolto dall'accusa di associazione mafiosa con l'alone della prescrizione fino al 1980. Una piega nel quale si è insinuata la suggestione che ancora oggi vorrebbe Silvio Berlusconi mandante delle bombe del 1992-1993, in spregio alle sentenze che ne demoliscono qualsiasi consistenza, non ultima quella che ha assolto Marcello Dell'Utri e il generale Mario Mori. Riscrivere la Storia è un esercizio doveroso, plasmare una verità di comodo alle esigenze politiche è un oltraggio alla memoria e alle vittime.

Soprattutto quelle di cui non resta neppure un corpo su cui piangere.

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