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I "Bella chat" tacciono sulla Boccassini

I giornali di sinistra ignorano (o quasi) la notizia dell'indagine a carico della pm milanese

I "Bella chat" tacciono sulla Boccassini

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Da Bella chat a Ilda ciao il passo è breve. Repubblica non scrive una riga sull'indagine a carico del pm milanese Ilda Boccassini, accusata di aver mentito ai pm fiorentini che indagano sulle stragi di mafia del 1993, convinti che Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri potrebbero esserne i mandanti: ipotesi inverosimile, già accartocciata in altre sedi giudiziarie.

Una manina a lei nota girò i verbali di un pentito anti Cav proprio al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Perché mentire e salvarlo? Dai pezzi usciti ieri non si capisce. La Stampa ci fa una brevona neutra, Giovanni Bianconi un articolone sul Corriere, il Domani e il quotidiano diretto da Maurizio Molinari fanno finta di niente. Ma come? Anni a parlare di bavaglio, di libertà dell'informazione, di cronisti con la schiena dritta e poi i giornaloni che da anni si abbeverano alle Procure sbianchettano sui quotidiani in edicola la notizia che l'ex capo dell'Antimafia milanese è indagata? Il Fatto quotidiano ha il merito di aver rotto l'omertà su una notizia che molti cronisti antimafia sapevano ma non volevano pubblicare senza riscontri. Un risultato ottenuto grazie agli ottimi rapporti di Marco Lillo con le fonti vicine alla Procura fiorentina, che invece col Giornale non ha voluto parlare.

Tutti a raccontare dell'indagine, nessuno ha spiegato cosa c'è dietro la volontà della Boccassini di proteggere davanti a Luca Turco e Luca Tescaroli la fonte giudiziaria che ha mandato a ramengo un'indagine a lei affidata quando era a Caltanissetta e che lei nel suo libro La stanza numero 30 uscito nel 2021 dice di conoscere. Per capire bene i contorni di questa vicenda bisogna fare un passo indietro e tornare alle rivelazioni del «pentito» Salvatore Cancemi, il primo a sostenere a verbale, out of the blue che Marcello Dell'Utri era il riferimento delle cosche siciliane con Silvio Berlusconi. Il suo pentimento è strano: si presenta in caserma da latitante, dichiarando di voler collaborare con lo Stato, si becca il nomignolo di «Totò caserma», millanta di essere nel gruppo di fuoco che a Capaci fa saltare in aria Giovanni Falcone, dice che Bernardo Provenzano lo vuole morto perché non ha ammazzato il capitano Ultimo, al secolo Sergio de Caprio, l'ufficiale carabinieri che catturò Totò Riina (oggi candidato alle Europee). Ma le cose che rivela non tornano, quasi mai.

«Raramente una collaborazione con la giustizia si era rivelata tanto spontanea quanto reticente», scrisse nel 2021 Attilio Bolzoni sul Domani, proprio lui che assieme a D'Avanzo ricevette da una manina quel verbale proveniente dalla cassaforte di Ilda e che su Repubblica pubblicò lo scoop anti Cavaliere. Ora è in pensione e lavora per la concorrenza, a lui i pm hanno chiesto l'identità della fonte, difesa dietro il segreto professionale. Anticipare via stampa le presunte rivelazioni di Cancemi avrà aiutato elettoralmente il Cavaliere ma è servito (anche) alla Boccassini - che allora indagava su Capaci e sulla morte di Paolo Borsellino - per evitare di imbarcarsi in un'inchiesta che si sarebbe schiantata come il Titanic davanti all'iceberg. Lei a Cancemi credeva eccome: il 13 aprile 1994, nel fare il punto con la stampa sulle indagini, dirà: «Il contributo determinante e irrinunciabile di Salvatore Cancemi è di fondamentale importanza per la ricostruzione del fenomeno mafioso».

Peccato che molti anni dopo nessuna Procura gli crederà fino in fondo.

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