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In Italia ci sono sempre meno laureati (eppure si snobbano gli atenei telematici)

L'istruzione flessibile potrebbe invertire la tendenza, ma è vista ancora con diffidenza

In Italia ci sono sempre meno laureati (eppure si snobbano gli atenei telematici)

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In Italia ci sono sempre meno laureati (eppure si snobbano gli atenei telematici)

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L'Italia ha il secondo tasso di laureati più basso d'Europa tra i 25 e i 34 anni. Un dato sintomatico della crisi dell'istruzione terziaria e triste conseguenza delle politiche universitarie perseguite negli ultimi decenni. Allargare l'offerta formativa nel nostro Paese permetterebbe di colmare il divario con gli altri Stati europei. È in questa prospettiva che si inseriscono le università telematiche, nate come evoluzione flessibile dell'istruzione universitaria tradizionale e che oggi rappresentano una valida alternativa a essa. Ma, nonostante queste premesse, in Italia prevale ancora una visione di contrasto attivo nei confronti degli atenei on line.

Davvero conviene fomentare questa contrapposizione, se il risultato finale è controproducente per l'intero sistema educativo italiano? Se lo sono chiesti il professore Marco Bassani, docente ordinario dell'Università Pegaso, e Carlo Lottieri, professore associato presso l'Università di Verona. I due sono anche gli autori del paper, pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni, «Università tradizionali e telematiche. Perché una guerra non ha senso», di cui si è discusso ieri a Roma all'aula Salvadori di Montecitorio. Diverse e disparate le voci intervenute durante l'evento, da Alessandro De Nicola di BonelliErede ai deputati Edoardo Ziello (Lega) e Marco Perissa (Fratelli d'Italia), passando per l'ex ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli e il giornalista de il Foglio Luciano Capone. La tesi di Bassani e Lottieri parte appunto dalla confutazione di questa falsa dicotomia tra le università tradizionali e quelle telematiche, che appunto non fornisce alcun contributo costruttivo al dibattito ma soprattutto offusca i meriti troppo spesso ignorati degli atenei digitali. Non solo, sostengono i professori, questi apportano un'innovazione innegabile a un mondo ancorato a una prassi didattica desueta, bensì rappresentano un valore aggiunto per tutti quegli studenti-lavoratori alla ricerca della flessibilità che l'istruzione universitaria standard non è in grado di offrire poiché non è mai stata affiancata da politiche adeguate.

I numeri mostrano una realtà dinamica e in crescita, con una particolare concentrazione nel Mezzogiorno: in Italia sono 250mila le persone iscritte alle università telematiche, circa il 13% di tutti gli studenti universitari italiani. Certo, la differenza principale è la modalità di sostentamento degli istituti: mentre quelli pubblici dipendono in gran parte dai fondi investiti dallo Stato e dalle tasse di chi ne fruisce, le risorse a disposizione degli atenei telematici provengono dalle rette versate da chi le frequenta. I benefici però sono evidenti. «È cruciale scrivono Bassani e Lottieri nell'articolo dell'Ibl che ci si renda conto di quanto il futuro sarà caratterizzato da un ricorso costante alla rete e alle nuove tecnologie. Parliamo, non a caso, di nativi digitali per riferirci alla generazione che oggi è impegnata negli studi universitari.

Le loro abitudini richiedono aggiustamenti all'offerta didattica, l'adozione di modalità nuove che ancora non conosciamo e che è improbabile possano sortire dal rifiuto dell'innovazione».

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