Letteratura

Quelle tre Spagne sulle rive dell'Ebro

Protagonisti non sono solo nazionalisti e repubblicani, ma anche chi non volle combattere

Quelle tre Spagne sulle rive dell'Ebro

Nel luglio del 1938 le truppe della Spagna repubblicana guadarono il fiume Ebro per quella che fu, in sostanza, l'ultima e la più sanguinosa battaglia della guerra civile cominciata due anni prima. Fra avanzate e ritirate, teste di ponte e arroccamenti, piazzeforti e colpi di mano, trinceramenti e assalti all'arma bianca, i due eserciti combatterono per un tempo pressoché infinito per un singolo fatto d'armi, quattro mesi, e lasciarono sul terreno un totale di ventimila morti. A metà novembre, il governo di Madrid diede l'ordine di ripiegare al di qua dell'Ebro e un mese dopo la controffensiva del generalissimo Franco si abbatté sulla Catalogna e portò, nel gennaio del 1939, alla conquista di Barcellona. L'espatrio in Francia e le successive dimissioni del presidente della Repubblica Manuel Azaña, la miniguerra civile scoppiata all'interno dello stesso governo repubblicano, quando il leader socialista Julián Besteiro appoggiò il golpe militare contro il governo Négrin, in un incauto tentativo di accelerare l'armistizio, furono i fatti più salienti di un copione ormai scritto: alla fine di marzo i nazionalisti entrarono in Madrid, il primo di aprile la guerra civile ebbe la sua conclusione.

Quella dell'Ebro fu altresì una battaglia significativa perché vide in azione tutte le componenti militari presenti sui due fronti. Su quello dei ribelli c'erano anche i requétes del carlismo catalano, i soldati della Legione straniera, i falangisti e i mori del Marocco spagnolo; dell'esercito repubblicano facevano parte le brigate internazionali e i soldati al servizio della Repubblica, gli anarchici, i comunisti e i socialisti, i consiglieri militari e i commissari sovietici. Per certi versi, era presente anche quella terza Spagna che le due Spagne contrapposte e decise all'annientamento reciproco tenevano a mo' di ostaggio: chi si era ritrovato per caso e non per scelta su una delle due sponde in lotta, chi avrebbe voluto disertare, per paura, per stanchezza, per non voler fare parte di quello che gli sembrava un inutile, insensato massacro, chi combatteva per un proprio senso dell'onore, personale, non politico, tanto meno ideologico e insomma per una idea di sé stesso e della Spagna che non aveva spazio nelle retoriche ufficiali.

È probabile che sia stato questo insieme di cose a far scegliere ad Arturo Pérez-Reverte la battaglia dell'Ebro come filo conduttore del suo Linea di fuoco (Rizzoli, pagg. 605, euro 22, traduzione di Bruno Arpaia), più un elemento, come dire, anagrafico, che emerge dalla storia di alcuni dei protagonisti reali e immaginari raccontati nel libro, ovvero la giovane età, ragazzi di nemmeno vent'anni, con poco o punto addestramento militare e subito scaraventati sul fronte, carne da cannone, è il caso di dire, uno scempio di vite umane di cui nessuna bandiera ideale può essere fiera.

Costruito con la consueta bravura, Linea di fuoco è per molti versi un romanzo corale, dove però ogni singola voce, popolare, borghese o aristocratica che sia, conserva un suo timbro particolare, reso benissimo dalla traduzione di Bruno Arpaia, una sorta ormai di alter ego dell'autore (un unico appunto tecnico: in italiano le baionette non si innestano, ma si inastano...). È altresì un romanzo profondamente spagnolo, nel senso che rimette al suo giusto posto quella dimensione extra nazionale, di natura ideologica e politica, che fu sì presente, ma non così determinante. Fu una guerra civile di spagnoli contro spagnoli, nata e cresciuta su motivazioni prettamente spagnole, combattuta con la ferocia ma anche con la fierezza di una guerra tra fratelli nemici, una tragedia nazionale: «Comprendere l'idioma del nemico, parlare la stessa lingua di quelli che uccidono, di quelli che devono uccidere, è un supplizio che deprime come se una montagna ti cadesse sulle spalle. Un uomo che dice come noi novia e amigo, àrbol e camarada. Che si rallegra con le stesse parole e impreca anche con le parole con cui imprechi tu. Che procederebbe al tuo fianco, sotto la tua bandiera, andando alla carica contro gente straniera».

Abituati come siamo a una lettura e/o rilettura di quel conflitto come uno scontro di princìpi, libertà contro dittatura, antifascismo contro fascismo, il Bene contro il Male, sotto questo punto di vista Linea di fuoco è una salutare lezione di realismo e l'autore è bravissimo a disseminare nel romanzo, senza per questo mai rompere il ritmo della narrazione, tutti quegli elementi atti a far capire come e perché quella guerra civile non fosse un accidente della storia, ma la sostanza della storia stessa spagnola per come si era venuta a configurare negli anni Venti e Trenta del Novecento, un susseguirsi di insurrezioni e di rivolte armate, un clima intellettuale infuocato, la violenza politica nelle strade, un senso di esaltazione e di frustrazione, di voglia di farla finita, una volta per tutte, da ambo le parti.

Allo stesso modo, letterariamente parlando, Pérez-Reverte si diverte a strizzare l'occhio al lettore mettendolo a parte delle sue simpatie e antipatie. Il cranio rasato della repubblicana Pato Monzón ricorda quello dell'eroina dell'hemingwayano Per chi suona la campana, scrittore di cui egli detesta la fanfaronaggine, ma di cui non disconosce le qualità narrative e la competenza storico-militare. I baffi alla Clark Gable del capitano di marina Bascuñana rimandano ai suoi gusti cinefili, il guastatore Julián Panizo è della stessa stoffa romanzesca di cui è rivestito il capitano Alatriste...

Romanzo corale, dicevamo, eppure romanzo individuale, perché poi ciò che l'autore ha a cuore è l'essere umano alle prese con sé stesso, la propria coscienza, la violenza, persino, connaturata alla sua condizione umana. Come sempre, alla grande storia, movimenti, idee, correnti di pensiero, conflitti epocali, leaders carismatici, Pérez-Reverte preferisce i microcosmi privati che si aprono e si chiudono rispetto all'enormità di ciò che li circonda, al vento della storia, alla contingenza del vivere che quel vento percuote, alle consuetudini e agli usi che di essa fanno parte. Sono esistenze esemplari pur nella loro assoluta normalità, perché poi quello che Pérez-Reverte insegue è una sorta di epica, dove cioè non ci si lascia vivere, ma si cerca fin dove si può di essere padroni del proprio destino, responsabili se non artefici delle proprie scelte. E dove, naturalmente, la paura, lo smarrimento, il fatalismo, hanno un ruolo importante, fanno parte di un vissuto mille miglia lontano da ogni oleografia ideologica.

Uscita da un trentennio di regime franchista, la Spagna ha vissuto un successivo cinquantennio in cui la memoria storica dei vincitori ha dovuto prendere atto che c'era anche una memoria degli sconfitti di un tempo con cui ora bisognava fare i conti, vogliosa com'era di prenderne il posto. È, se si vuole, una sorta di legge del pendolo da tenere presente e che in una democrazia degna di questo nome va analizzata con attenzione. In Linea di fuoco, un altro aspetto interessante è proprio questo, non l'idilliaca aspirazione a una memoria condivisa, ma la consapevolezza che se da un lato un Paese maturo deve fare i conti con una memoria divisa, dall'altro non c'è nazione moderna che non sia nata da un rivolgimento cruento, politico o religioso, che l'ha spaccata in due. E non c'è democrazia autentica, ammesso che esista, che non si fondi su scelte di campo nette o appassionate professioni di fede, sulla bipolarità, sul confronto serrato, ma civile, fra idealità, opzioni, valori, progetti inevitabilmente diversi e contrapposti.

È questo l'assunto di un bel libro italiano sulla guerra di Spagna, La brigata delle ombre, di Antonio Di Grado (La nave di Teseo), di cui ci si è già occupati e che Perez-Reverte a suo modo fa proprio: in Linea di fuoco le parti in causa hanno pari dignità, la scure del Bene e del Male non rispecchia la realtà ma la avvilisce e/o l'abbellisce per motivazioni dove il nobile e l'ignobile si confondono in uno sviluppo inestricabile quanto ingannevole.

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