Cultura e Spettacoli

Amore, musica e follia. L'ultimo atto del genio Schumann

Piero De Martini si addentra nella fase finale della vita del compositore Robert Schumann.

Amore, musica e follia. L'ultimo atto del genio Schumann

In Robert Schumann (1810-1856) c'è molto della sua epoca, più che in altre menti geniali. Un po' come se il talentuoso compositore fosse una finestra spalancata sul tempo, la prima metà dell'Ottocento. Tempo in cui essere artista, per di più tedesco, significava essere prima di tutto un artista romantico. Come il poeta Friedrich Hölderlin, più vecchio di quarant'anni, che Schumann amava e di cui condivise il destino maledetto. Quando questi morì pazzo, nel 1843, il musicista viveva gli anni gioiosi dell'esistenza: si era sposato da poco con Clara Wieck, figlia del suo maestro di pianoforte e grandissima pianista essa stessa, nonostante i Wieck fossero contrari, per l'instabilità mentale e per gli eccessi alcolici dell'affascinante pretendente. Uno psichiatra direbbe che la morte del padre, quando aveva solo sedici anni, e il suicidio della sorella Eugenia ne avevano segnato per sempre l'anima. Eppure la sua vita era stata ed era un'infilata di successi, per lo più di critica, ma anche di pubblico: incarichi prestigiosi, composizioni che a sentirle facevano e fanno tremare i polsi, abissi di dolcezza e malinconia sonore senza fine.

Qualcuno potrebbe pensare che forse non fosse necessaria una nuova biografia su un protagonista della musica tanto famoso, dal quale si recavano in pellegrinaggio Brahms e Liszt ancora giovani. E invece sì, perché Piero De Martini, già autore di libri su Mozart e Chopin, inizia laddove altri hanno gettato la spugna. Gira il coltello nella piaga degli anni della follia, dello sdoppiamento di personalità e infine del ricovero in manicomio, dove Schumann morì nel 1856 a soli 46 anni. In Schumann. L'ultimo capitolo (ilSaggiatore, pagg. 212, euro 25), ci sono i risultati dei viaggi di De Martini a Düsseldorf, nella sua ultima dimora in Bilker Strasse e nella casa di cura di Endenich, dove il genio si rovescia in follia e Robert diparte per una malattia misteriosa. Fruttuose le ricerche da rabdomante tra le sue opere perdute, in modo particolare il Concerto per violino in Re minore, emerso dal passato solo quando Joseph Goebbels, il ministro nazista della propaganda, lo strappa all'oblio per farne un manifesto della vera musica tedesca: fu eseguito a Berlino nel 1937 e poco dopo negli Stati Uniti. Il tutto contro la volontà della vedova Clara Schumann, e degli amici Joseph Joachim e Johannes Brahms, che ne avevano sepolto la partitura nella Biblioteca di Stato di Berlino stabilendo che sarebbe stato possibile rivederla solo cento anni dopo. Una decisione incomprensibile, mentre il suo autore, nei rari momenti di lucidità, chiedeva che ne fosse stato della sua musica.

Si citava sopra Hölderlin, il pensiero corre alla sua torre a Tubinga, in cui visse gli ultimi 36 anni. Nessuno può dire cosa balenasse nei suoi pensieri; il paragone con i due anni di Schumann a Endenich viene spontaneo, per quanto siano così pochi in confronto, perché altrettanto dolorosi e definitivi. E poi De Martini inizia il libro con un capitolo dedicato proprio alla mente del compositore, e qui si scoperchia un mondo di cui Hölderlin fa parte. Il musicista fu infatti un avido lettore della sua poesia, come di quella di Novalis, ma anche per il vezzo di firmarsi talora con nomi italiani, che non può essere casuale. Hölderlin aveva scelto Salvator Rosa, Buonarroti, Scardanelli; Schumann Eusebio e Florestano, due maschere del Carnaval, op. 9. L'uno è un tipo riflessivo, l'altro un bel matto, un eroe romantico spumeggiante. Un tipo alla Ugo Foscolo, se vogliamo continuare i riferimenti all'Italia.

Schumann era infine coltissimo, in cima alle sue preferenze c'erano Goethe, Schelling e Schiller; a modo suo era anche un po' filosofo, credeva in un dio panteista e cullava un forte sentimento della natura. Gli piaceva passeggiare e cogliere fiori di campo. Soprattutto lungo il fiume Reno, così pregno di significati per l'identità teutonica. Nel 1850 compone Renana, «la più equilibrata e anche la più tedesca delle quattro sinfonie», scrive De Martini. Ed è sempre nel Reno che cerca la morte quattro anni dopo, senza successo. È l'inizio della fine: il ricovero in clinica, da lui stesso voluto, con gli incubi sonori che non gli davano tregua e l'assenza, la misteriosa e remota assenza dei folli. Non c'erano molte definizioni a quel tempo per le persone cadute nel buio della mente, da cui in verità Schumann da sempre temeva di essere inghiottito. Sembra si animasse solo quando la moglie e gli amici gli facevano visita.

Per parlare di musica, naturalmente.

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