Cultura e Spettacoli

Roberto Michels, l'élite rimarrà sempre al potere

Nel 1911 il politologo tedesco naturalizzato italiano teorizzò la "legge ferrea dell'oligarchia"

Roberto Michels, l'élite rimarrà sempre al potere

Pur facendo parte della cosiddetta «generazione classica» della sociologia tedesca quella di Max Weber, Ferdinand Tönnies, George Simmel e tanti altri Roberto Michels (1876-1936) fu uno dei principali esponenti dell'«elitismo», di quel filone di studiosi cioè, tipicamente italiano, che si occupa di «classe politica». Insieme a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, anzi, egli, con la sua «legge ferrea dell'oligarchia», può esserne considerato uno dei co-fondatori nel senso che le sue conclusioni rappresentano uno sviluppo delle tesi degli altri due secondo una precisa traiettoria: Mosca elabora la «teoria della classe politica» evidenziano il ruolo delle «minoranze organizzate», Pareto introduce il concetto di «circolazione delle élites politiche» e ne studia la dinamica per la conquista di una leadership, Michels applica le loro conclusioni al caso del partito politico.

Nato a Colonia, Michels si sentiva però, com'ebbe a scrivere, «toto corde e senza restrizioni, cittadino d'Italia», anche se ottenne la cittadinanza avanti negli anni. Poliglotta e eclettico, studiò in diversi Paesi frequentando significativi intellettuali del tempo, dall'economista Lujo Brentano agli storici Karl Lamprecht e Gustav Droysen fino al sociologo Max Weber. Dal punto di vista politico fu all'inizio vicino al socialismo e strinse rapporti di amicizia e collaborazione coi protagonisti del sindacalismo rivoluzionario, da Georges Sorel e Hubert Lagardelle, da Arturo Labriola a Enrico. Nel 1907 si trasferì a Torino dove conobbe Luigi Einaudi, Achille Loria e Gaetano Mosca, personalità che avrebbero contato molto per l'evoluzione del suo pensiero. Nel 1928, dopo più di un decennio in Svizzera dove insegnava Economia politica all'Università di Basilea, fu chiamato, per diretto intervento di Mussolini, come professore di Economia generale e corporativa nella Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Perugia, considerata la facoltà fascista per eccellenza e vi rimase fino alla morte. L'incontro con Mussolini era avvenuto pochi anni prima, nel 1924, e si era tradotto ben presto in un rapporto di stima reciproca e amicizia. Non a caso Michels finì per individuare in Mussolini l'incarnazione del tipo di «capo carismatico» secondo la dizione weberiana da lui ripresa e teorizzata nel Corso di sociologia politica tenuto allateneo romano nel 1926. Cionondimeno egli non fu un intellettuale organico nel senso proprio del termine, ma rimase uno studioso il cui nome è legato alle ricerche sulla fenomenologia del partito politico nella società contemporanea.

Proprio il suo libro più celebre e fortunato, quello dedicato a La sociologia del partito politico è stato appena ripubblicato (Oaks editrice, pagg. CXXXIV-576, euro 38), con una bella introduzione critico-biografica di Gennaro Sangiuliano nella quale è ben ricostruito l'itinerario intellettuale dell'autore ed è sottolineata l'importanza dell'opera nella nascita e gli sviluppi della scienza politica contemporanea. Una importanza riconosciuta a livello internazionale come dimostrano, per esempio, gli studi del francese Maurice Duverger, autore del più importante lavoro sui partiti politici, e dell'americano Charles Wright Mills, il cui celebre lavoro su Le élites del potere lascia trasparire l'influenza delle tesi michelsiane.

Pubblicata nel 1911 in Germania, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (questo il titolo originale) apparve in lingua italiana l'anno successivo con notevole successo. Michels vi esaminava studiando la socialdemocrazia tedesca, unico partito all'epoca con una struttura ben definita le organizzazioni politiche di tipo «volontaristico», cioè i partiti che si definivano «democratici» perché sceglievano i propri leader attraverso meccanismi di tipo elettivo o referendum. E giungeva alla conclusione che essi finivano per trasformarsi in oligarchie di fatto, diverse da quelle de jure solo perché in queste ultime le élites non venivano elette né volevano correre l'alea di elezioni. Tale conclusione condensava la cosiddetta «legge ferrea dell'oligarchia» sintetizzata in due frasi celebri di Michels: «La democrazia non è concepibile senza organizzazione» e «Chi dice organizzazione dice tendenza all'oligarchia».

Per Michels le elezioni non erano affatto indice di democraticità: «La volontà popolare non è criterio di democrazia», scriveva con una battuta lapidaria, perché i criteri di misurazione della democraticità di una organizzazione ovvero di un sistema politico non potevano essere quelli formali basati solo sull'esistenza di un procedimento elettorale a suffragio più o meno esteso, ma dovevano essere invece criteri sostanziali legati ai presupposti della teoria democratica. Dalla sua ricerca sulla leadership e sulla fenomenologia della dinamica partitica egli ricavava la convinzione che un partito politico strutturato sul piano organizzativo fosse, comunque, un'organizzazione non democratica avendo insita in sé la tendenza oligarchica. Questa tesi della non democraticità dei partiti organizzati implicava, per Michels, l'idea della irrealizzabilità della democrazia in ogni grado proprio perché, egli precisava, «la democrazia porta all'oligarchia, diviene oligarchia».

Il discorso di Michels riguardava le organizzazioni private volontarie il partito politico, in primis, ma anche sindacati, associazioni professionali e via dicendo e non ignorava l'esistenza di un rapporto tra queste e lo Stato. Per lui, però, la «legge ferrea dell'oligarchia» operava ovunque vi fosse un minimo di organizzazione. Prendendo come esempi il caso dell'imperatore Guglielmo II che invitata i malcontenti a emigrare e quello del fondatore della socialdemocrazia tedesca, August Ferdinand Bebel, che sollecitava gli scontenti ad andarsene dal partito, Michels si domandava, infatti, retoricamente: «Che differenza esiste mai fra l'atteggiamento di questi due, tranne quella che esiste tra un'organizzazione volontaria (partito) ed una non volontaria (Stato), tra un organismo cui si aderisce esclusivamente per propria scelta e un altro cui invece si appartiene già per nascita?».

Che il discorso di Michels, ma anche di Mosca e di Pareto, abbia una forte carica di critica alla democrazia è evidente. Tuttavia, non a caso, accanto a tante riserve polemiche (a cominciare da Gramsci) non sono mancati i tentativi (da Gobetti a Bobbio, passando per Dorso e Burzio) di recuperare le teorie elitiste al pensiero democratico.

Al netto delle diatribe politico-accademiche rimane il fatto, come ben osserva Sangiuliano nella prefazione, che «nell'epoca in cui le democrazie sono corrose dalla dittatura del politicamente corretto e dalla cancel culture, dominate spesso da club tecnocratici privi di legittimazione e consenso, le analisi di Michels ritrovano una attualità».

Commenti